Ian Anderson / Jethro Tull si tuffa nei miti norreni con RökFlöte
Sono passati suppergiù 15 mesi dall’uscita di The Zealot Gene, album uscito dopo uno hiatus di almeno 20 anni dall’ultima fatica dalla band di Ian Anderson, ormai, a tutti gli effetti, leader maximus di una formazione in cui non appare neppure più un unico membro storico e quindi la percezione che si trattino, praticamente, di dischi solisti che sfrutticchiano il vecchio moniker per senili malinconici è assai pronunciata.
Comunque, se nel capitolo recente si andava a scandagliare bibliche suggestioni, oggi con RökFlöte (per Inside Out) il peana è tutto dedicato ai mitti norreni, un tuffo nel DNA di Anderson / Jethro Tull il cui cognome la dice lunga sul da dove giunsero i suoi avi scandinavi, ormai consegnati, nel presente, alla serialità televisiva che ne esalta ferocia e guascona attitudine.
Si apre con un vocalist islandese, ma il resto del palcoscenico è tutto per Anderson
L’intro è affidato ad un mezzo spoken con la voce di Unnur Birna, artista islandese e si pone come suggestivo viatico per le successive 13 canzoni che nascono, evidentemente, da un momento riflessivo sulle proprie radici, andando però a erodere l’intento iniziale dell’autore che era quello di fare un album strumentale dedicato, appunto, al suo strumento di elezione, da qui il titolo “vichinghizzato”…
Devo dire che il rischio di storcere il naso si affaccia assai di frequente. Ormai è trademark di Ian Anderson replicare la formuletta flauto bucolico, accenno hard, accelerazione, ariflauto bucolico e il tutto accompagnato da una esposizione vocale che ha mutato il vecchio birignao in, troppo spesso, poco ispirate narrazioni prive di slanci passionali e che sfiorano talvolta la poesia di Natale letta in piedi sulla sedia davanti ai parenti ebbri.
I Jethro Tull di RökFlöte lasciano una sensazione di uniformità
Difficile trovare differenze tra un brano e l’altro. Se ascoltato con volontaria distrazione il lavoro rischia di apparire un unico pezzo con poche variazioni di percorso, diverte, ma probabilmente solo me, la giga di Trickster (and the Mistletoe) che per un 3 minuti rimette in pista le passate canzoni dal bosco ma è ben poca roba nell’arco di 49 minuti.
Non che mi attendessi chissà quali epifanie, questi dischi li si ascolta, alla mia certa, più per la curiosità di vedere se si accende qualche luminaria residua che per, come spesso accade agli irriducibili del genere, fideistica dedizione priva di giudizio a qualsiasi zuppa venga somministrata, ma RökFlöte proprio non ha smosso neanche la mia minima affezione e peccato perché ero quasi sulla via della conversione al padre di noi tutti.
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L’ennesimo lavoro di Ian Anderson, piacevolissimo da ascoltare, ma, musicalmente, privo di sorprese.