La POPtical Illusion dell’eterno ragazzo terribile John Cale.
O troppo o niente. Era il gennaio 2023 che su queste pagine parlottavo del nuovo, all’epoca, lavoro di John Cale, quel Mercy figlio del lockdown ed ecco che, ad un anno e mezzo di distanza, il gallese trapiantato a New York riciccia fuori con un altro disco che par essere, pur questo, stato partorito nell’isolamento che tutti ci forzò.
John Cale non teme l’età e fa tutto da solo
Di primo acchito si noti che, mentre Mercy faceva sfoggio di giovini virgulti a dar man forte all’ottuagenario sopravvissuto (al momento, di una certa scena, mi sembra siano ancora con noi lui e Iggy Pop, lasciando perdere altri Velvet non a queste stature), POPtical Illusion è invece farina, pure gluten free, del suo immenso sacco. Un sacco che, tra alti molto alti e qualche basso ma non troppo, accompagna il sottoscritto et seguaci vari da almeno mezzo secolo.
Diciamo subito che, per quanto concerne le sonorità, l’album (pubblicato da Domino) non si discosta dalle sue ultime cose, molta elettronica sapiente, qualche acustica reverente e, soprattutto, quella voce che ha spezzato cuori adolescenti con la sua Musica per una Nuova Società e, ancor, è in grado di smuovere le viscere più o meno senili dei suoi devoti ascoltatori.
POPtical Illusion brano per brano
Tredici canzoni tredici che vanno dalla laica religiosità dell’iniziale God Make Me Do It (Don’t Ask Me Again) alla cartolina genetica di Davies and Wales con il suo classico terzinato, alle sincopi glitchciate di Calling You Out, che richiama addirittura il doo-woop made in the Fifties, a Edge of Reason molto prossima all’album che fece con Eno, Wrong Way Up, eoni fa.
I’m Angry è di un romaticismo bipolare; How We See The Light potrebbe essere uscita da Paris 1919 non fosse per quei suoni accidental/accidentali che ne turbano il percorso aurale; Company Commander è ennesimo richiamo al suo passato da sabotatore; Setting Fires usa un piano preparato, memore delle lezioni di John Cage, suo antico mentore; Shark-Shark è il riappropiarsi del suo esser stato prodromico del punk ed affini, velvetiana al midollo.
Funkball the Brewster apre con uno yodel from outer space per poi per chiudere cacofonica; nel processo melodia/disturbo della medesima che accompagna alcune songs di quest’album All to the Good è di nuovo canzoncina cibernetica glockenspiellata che è già repertorio.
Le ultime due songs che chiudono il lavoro sono, nell’ordine, Laughing in My Sleep, provate a togliere la ritimica e vi ritroverete delicatissimo peana, e There Will Be No River, dove tra la lezione di Satie ed Eno, ci si può benissimo immaginare lo scorrer di titoli di coda di questo ennesimo passo avanti.
Tutto considerato un lavoro più che dignitoso, certo non a livelli di un passato sublime, ma senza dubbio senza i segni di stanchezza o maniera che potrebbero esser tipici di artisti coevi. Me ne Cale ancor e ancor.
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