La danza come tema centrale del nuovo Kamasi Washington: Fearless Movement.
Quasi tre ore (in tre cd o tre lp) The Epic del 2015, oltre tre ore (sempre tre cd ma cinque lp) Heaven and Earth del 2018. Con Fearless Movement (Young Turks) Kamasi Washington non arriva a un’ora e mezza (suddivisa in due cd o lp) e questa è già una buona notizia, anche considerando il tempo a disposizione nella vita di ognuno.
Fin dalle prime dichiarazioni il sassofonista di Los Angeles ha spiegato di aver rivolto, per questo terzo album, le sue attenzioni alla danza. Niente di male. L’intento è esplicitato già dal primo brano, Lesanu, che prende la struttura di Impressions di John Coltrane e la riveste in salsa ethno-jazz, secondo gli insegnamenti di Mulatu Astakte.
Un primo disco ricco di ospiti
Poi inizia la sfilata degli ospiti o dei featuring se preferite l’inglese: Thundercat, Taj Austin, Ras Austin in Asha the First (ispirato e dedicato alla figlia Asha), con sprazzi rap che mischiano hip-hop e funk. Patrice Quinn, DJ Battlecat, Brandon Coleman (reo di un assolo di tastiera che nel 2024 vorremmo evitare di sentire ancora) in Computer Love, un’insipida ballad, con tanto di Shooby-doo-doo-doo, sull’amore ai tempi del digitale. D-Smoke e George Clinton in Get Lit che non risollevano la vacuità del brano così come il flauto di Andre 3000 in Dream State concorre solo ad aumentare il livello di noia. Altri due titoli, senza sussulti, e si chiude il primo disco (anche se l’ordine dei brani in versione cd differisce da quello in vinile), quello in teoria più contemporaneo e ispirato alla dance di cui sopra.
Il secondo capitolo di Fearless Movement vede Kamasi Washington con meno ospiti
Nel secondo le ospitate scompaiono (tranne un’incursione di Bj the Chicago Kid in Together), ma le cose non migliorano: la sostanziale convenzionalità del Kamasi sassofonista ha modo di emergere sia in Road to Self (KO), un attorcigliamento senza direzione, svolgimento e soluzione, o in un pezzo obsoleto come Lines in the Sand. A chiudere il disco, in tutte le versioni, Prologue di Astor Piazzolla che perde, oltre al sottotitolo (Tango Apasionado), anche l’intensa drammaticità dell’originale.
Un successo difficile da spiegare
Resta il successo (e le ottime recensioni) di un musicista che ha comunque buone doti di arrangiatore e di compositore, spesso però offuscate da un’insanabile tendenza all’enfasi ridondante e all’eccesso. Il dubbio è che, pur muovendosi in territori sostanzialmente estranei al jazz (benché sia lì che le sue radici affondino), rappresenti un’ottima alternativa a chi voglia avvicinarsi al genere: con l’avvertenza di ricordarsi di riporlo in un altro settore.
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