Bravo Makaya McCraven, ma l’organic beat music di In These Times non convince
Nato a Parigi, cresciuto nel New England, residente da lungo tempo a Chicago, il batterista e percussionista Makaya McCraven è sicuramente uno dei protagonisti della nuova scena jazz, I suoi tentativi di riconfigurarne i confini prendono spesso spunto dal passato. Gli ultimi due lavori erano dedicati rispettivamente alla rilettura del sound Blue Note (Deciphering the Message nel 2021) e alla rivisitazione dell’ultimo disco di Gil Scott-Heron (We’re New Again, 2020). Il risultato, in entrambi i casi, era piuttosto deludente. Ora ritorna con un album di composizioni originali, ispirate, nell’intenzione, dalle lotte culturali della comunità africana e dalle sue esperienze personali.
In These Times: tanto ambizioso quanto esile
In These Times (International Anthem) ha avuto una gestazione complessa durata sette anni e realizzata in cinque studi e quattro spazi da concerti, con un ampio lavoro di post-produzione. L’album si apre con il brano che gli dà il titolo e la voce di Harry Belafonte, da un’intervista radiofonica del gennaio 1955: «Non vorrei essere mai ricordato come qualcuno che si è opposto al progresso». Su un esile riff (che, ahimè, ricorda molto lo stacco del programma Propaganda) un bell’assolo di sax di Greg Ward risulterà essere uno dei momenti più convincenti dell’album. Perché da questo momento il suono della organic beat music, come McCraven definisce il suo lavoro, si risolve in susseguirsi di esili ritmiche, alle quali non bastano gli interventi dei musicisti presenti nel disco – Junius Paul, Joel Ross e Marquis Hill tra gli altri – per diventare brani compiuti. Così accade nell’esotico The Fours con l’arpa di Brandee Younger, nell’impalpabile High Fives e nel breakbeat hip-hop di Dream Another, in cui gli interventi orchestrali e il flauto di De’Sean Jones sembrano perfetti per musicare una sequenza cinematografica di raccordo.
Makaya McCraven potrebbe fare cose più interessanti
Il disco prosegue senza scossoni, rassicurante anche in The New Untitled, quando la chitarra di Jeff Parker tesse un mosaico che prova a risplendere nel grigiore generale. Da segnalare la curiosa Lullaby, melodia del gruppo folk magiaro Kolinda dove militava la madre di McCraven, la cantante ungherese Ágnes Zsigmondi, con un bell’intervento di violino di Zara Zaharieva. Ma sinceramente, di questi tempi, sarebbe stato lecito aspettarsi un po’ di più.
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