A cinque anni dalla registrazione Massimiliano Gallo e Julitha Ryan pubblicano Diamond Sky
Julitha Ryan viene da quella Melbourne in cui da decenni ribolle il brodo di coltura del miglior rock australiano; quel brodo da cui sono emersi Nick Cave – anche se nato a qualche centinaio di chilometri di distanza -, il compianto Rowland Howard e soprattutto Hugo Race, col quale la Ryan condivide quel segno zodiacale che li ha portati, insieme con Michelangelo Russo e Andrew “Idge” Hehir, a realizzare un disco a otto mani: Gemini 4.
Ma già da qualche anno a questa parte la nostra pare avere un feeling particolare con i musicisti italiani. Il suo lavoro precedente, The Winter Journey (2017), è stato infatti registrato quasi interamente nel nostro paese con l’ausilio, fra gli altri, di Giovanni Calella, Pier Adduce, Enrico Berton e di quel Massimiliano (anzi Maßimiliano) Gallo che firma insieme a lei questo Diamond Sky. Il disco è stato composto e registrato quasi cinque anni fa, al termine del tour italiano della Ryan, accompagnata proprio da gran parte dei musicisti con i quali aveva realizzato The Winter Journey, e durante un breve soggiorno tra Cilento e Calabria.
Le canzoni di Diamond Sky
Proprio dall’incontro con un vecchio pescatore nasce il brano iniziale, Tears Of The Fisherman, in cui viene narrata la difficile “storia d’amore” fra chi vive sul mare e col mare. Un mare che prende e dà in uguale misura, ma di cui non si può fare a meno. Il mandolino e il violino di Gallo si incaricano di rivestire ancora di più di tenera malinconia la voce della Ryan.
La successiva canzone – quella che dà il titolo all’album – esplicita ancora di più quello che sembra essere il “messaggio” del disco, la ricerca di un rapporto equilibrato con la natura che ci circonda con tutti i suoi elementi: aria, terra e acqua. Ed è un rapporto che ognuno deve ricercare in solitudine, senza averne paura e contando pressoché solo su se stesso: “I see my loneliness rise in front of me and it doesn’t worry me”, canta Julitha sullo sfondo di un tappeto sonoro tanto soffuso quanto “martellante” e ipnotico, arricchito qua e là dalle melodie del violino di Gallo. Qui la voce, pur mantenendo la sua caratteristica “dolcezza”, assume talvolta quelle sfumature “inquietanti” che hanno caratterizzato un’altra sua illustre concittadina, purtroppo recentemente quanto prematuramente scomparsa: Anita Lane. Sfumature mantenute – anzi, ancor più evidenti – nella successiva The Infinite Truth, che riprende le stesse tematiche e mantiene lo stesso “clima” sia nei testi (“I travel my lonely road … I was alone but not sad”) sia nella musica.
L’atmosfera non cambia in Lullaby For The Wind e Too Weak To Be Spring, che anzi si avvalgono di un accompagnamento musicale ancora più lento e solenne in cui l’elettronica ha una parte discreta e non prevaricante. Già, perché anche se il synth – suonato sia dalla Ryan sia dal produttore Dugald Jayes – è una presenza pressoché costante in tutti i brani, la cifra caratterizzante del disco è data senza dubbio dai cordofoni – chitarra e mandolino suonati da Gallo – e soprattutto dagli archi: il violino e la viola dello stesso Gallo e il violoncello della Ryan. Un disco tanto breve (cinque brani per una trentina di minuti) quanto intenso e al quale non ha affatto nuociuto stare per quasi cinque anni chiuso in qualche cassetto prima di arrivare alle orecchie di chi ha per fortuna giudicato valesse la pena di produrlo.
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