Max Manfredi – Il Grido Delle Fate

Un autore parsimonioso: ragione in più per celebrare il ritorno di Max Manfredi con Il Grido Della Fata.

Ecco un altro di cui non si può certo dire che si inflazioni. In poco più di trent’anni di attività Max Manfredi da Genova è appena al settimo disco (Il Grido Della Fata) e gli intervalli di tempo trascorsi tra l’uno e l’altro sono ovviamente assai lunghi. Sono infatti passati sette anni dalla pubblicazione del precedente, Dremong, e ben tredici dal bellissimo Luna Persa, vincitore della Targa Tenco nel 2009, che chi scrive ha avuto la fortuna di ascoltare dal vivo in un concerto a Firenze di ormai parecchi anni fa, stupendosi non poco nell’ascoltare le sonorità della “chitarra di cartone” (papier maché) che Manfredi suona spesso tanto in sala di incisione quanto dal vivo.

Un inizio all’insegna del binomio ritmico

Tanto atipica – ma non per lui – quanto affascinante questa sua ultima fatica, con testi che alternano disincantato “realismo” a suggestioni “magiche”; come del resto suggerisce il titolo, anche se alla fin fine non è facile capire chi sia la fata e cosa comunichi col suo grido. La Scimmia Grigia, che apre l’album, sembra far riferimento ai condizionamenti che ci vengono imposti dai ritmi di vita del presente, magari anche e soprattutto dalla “schiavitù” alla quale sembra averci condannato la telematica “social”. Sensazione accentuata dalla ritmica del brano, sostenuto da un martellante binomio basso-batteria, che si stempera nel finale in un andamento quasi elegiaco che sembra dare qualche speranza di riuscire a venirne fuori. Ovvio che nell’opera di un musicista che è anche poeta e scrittore i testi rivestano grande importanza.

I testi di Max Manfredi – Il Grido Della Fata

E sono testi in cui c’è molto. Innanzitutto molto amore, narrato in costante equilibrio tra incanto e disincanto. Ma presto ci si accorge che forse non è il caso di addentrarsi in una puntuale esegesi delle parole di ogni brano. E non certo perché i testi non lo meritino, anzi! Il fatto è che il linguaggio di Manfredi procede per un susseguirsi di immagini e di suggestioni: a volte anche “criptiche”, ma sempre improntate a un affascinante e poetico “flusso di coscienza”, che si apprezzano e si comprendono pienamente forse solo lasciandosi abbandonare e cullare dal loro suono. Si ascoltino, a mo’ di esempio, Rosso Rubino – che Manfredi canta inizialmente quasi come se fosse una romanza di un’opera lirica – o l’eponima Il Grido Della Fata, che inizia con un suono che simula quasi un ipnotico carillon.

Un disco invernale

È stato detto che il disco presenta un’atmosfera, diremmo un’allure, “invernale” ed è difficile non essere d’accordo: ascoltandolo è difficile non immaginarsi davanti a un caminetto acceso con un buon bicchiere di cognac – o magari di calvados, citato esplicitamente in Malvina – in mano.

 

Musicalmente il disco si avvale, come già accadeva in Luna Persa – di una strumentazione complessa e di arrangiamenti assai raffinati. Rispetto al precedente si registra semmai un ingresso “discreto” dell’elettronica: un’elettronica che “modifica” senza prevaricare i suoni “naturali” dei vari strumenti. Con l’ovvia eccezione degli inserti di strumenti elettronici “nativi”, come il theremin che si prende il centro della scena in Sala Da Concerto. Disco dai molteplici influssi e “richiami”: dagli chansonnier francesi alla musica orientale di Nasi Goreng, per finire con la musica per liuto seicentesca che riecheggia contrappuntando il testo in Polleria, Apis e Elicriso: forse un omaggio, o meglio, una conseguenza degli esordi di Manfredi come cultore ed esecutore di musica antica. Insomma, siamo appena a gennaio, ma Il Grido Della Fata si candida seriamente fin da ora a “disco italiano dell’anno”.

Max Manfredi – Il Grido Della Fata
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“Giovane” ultrasessantenne, ha ascoltato e ascolta un po' di tutto: dalla polifonia medievale all'heavy metal passando per molto jazz, col risultato di non intendersi di nulla! Ultimamente si dedica soprattutto alla scoperta di talenti relativamente misconosciuti.

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