I Muzz di Paul Banks (e non solo) all’esordio.
Sono occorsi cinque anni di gestazione prima che Muzz, album del trio omonimo, vedesse la luce. Un progetto elaborato e complesso al quale hanno dato vita Paul Banks, lead singer degli Interpol, Matt Barrick, batterista dei Walkman e Josh Kaufman, multistrumentista dei Bonny Light Horseman. Un lavoro fortemente voluto dai tre musicisti, amici di lunga data, che hanno aprofittato dei ritagli di tempo rubati alle rispettive agende, decisamente fitte di impegni, per registrare il disco del loro debutto.
Tanta cura e tanta attenzione hanno sicuramente tanto i loro frutti e l’album, 12 brani in totale, per la durata complessiva di circa 45 minuti, è riuscito e gradevole: certamente una delle uscite più interessanti di questa prima metà del 2020. Se proprio volessimo trovargli un difetto, potremmo dire che Muzz è un progetto allo stesso tempo coerente e disomogeneo, profondamente riconoscibile nelle singole parti che lo compongono: d’altro canto potremmo anche considerare la varietà che abita i singoli brani come un punto di forza.
Oltre il rock
Ma procediamo con ordine. È Bad Feeling ad aprire le danze.Una traccia malinconica dal ritmo sincopato, dominata dalla voce inconfondibile di Banks, cui fanno da controcanto Annie Nero e Cassandra Jenkins, fino a risolversi in un finale dai toni trionfali, assicurato dal sax di Stuart Bogie. Numerosi sono i momenti in cui le atmosfere jazzate prendono il sopravvento, mescolandosi a venature rock d’antan. La voce di Paul Banks si allontana con decisione dalle atmosfere Interpol per offrirci una maggiore profondità e duttilità. È il caso di How Many Days con il suo crescendo dominato in apertura da piatti e percussioni e una coda impreziosita da inattesi riff di chitarra, a conferire un insolito tocco fuzz all’insieme.
Le influenze del disco
Accade anche con l’ipnotica Summer Love, dal lento ritmo di una bossa nova e dal riuscito dialogo di chitarra e basso, impreziosito qua e là dalle note delicate del flauto. Neil Young e Bob Dylan sono i numi tutelari associati alla band, quasi a voler cancellare con un colpo di spugna i consueti richiami a Ian Curtis e ai Joy Division, da sempre avvicinati a Banks. E a ben vedere i Muzz sono ben più prossimi al rock americano anni 70 che alla new wave britannica. Segnali evidenti fanno capolino nella bella Broken Tambourine, languida ballata, dylaniana anche nel titolo, che si apre sulle note struggenti del pianoforte suonato da Paul, che domina il pezzo con la sua magnifica voce baritonale.
È uno dei momenti migliori del disco, assieme a Patchouli, brano ipnotico dal sapore cinematografico che rievoca, a tratti, il deserto americano. Altrettanto riuscita e teatrale Red Western Sky, primo singolo estratto dall’album, che conferma lo stato di grazia della penna di Banks, che dipinge con colori accesi una scena che, da sola, potrebbe fornire il primo spunto per la sceneggiatura di un film western. Red western sky, show me what to do /Give me time to cry, give me long night through / All the great ones change, and the feet still bleed / What’s forsaken fate in this token secret /Strange to think somebody really cares, canta Paul.
I Muzz fanno centro
Fra gli episodi migliori del disco non posso non segnalare la struggente ballata Trinidad, che chiude l’album o le venature psichedeliche di Evergreen, dominata da folgoranti giri di basso in dialogo con percussioni e flauto, o, infine Knuckleduster, il secondo singolo, con il suo ritmo travolgente, assicurato dalle percussioni di Barrick. Nel complesso, come anticipato, un lavoro riuscito, nel quale i tre musicisti sono riusciti a combinare i tratti più evidenti del proprio stile fino a creare un insieme, che sebbene godibile, di tanto in tanto perde un po’ di anima per trasformarsi in un esercizio di stile. Un disco comunque bello e che si lascia ascoltare con piacere, tanto da meritarsi una notazione più che positiva.
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