Luci e ombre nel nuovo Neil Young.
Neil Young non si lascia travolgere dal passato. Lo sfiora con delicatezza, lo osserva con rispettoso distacco e dall’immensa cornucopia della sua produzione musicale trae ciò che ritiene indispensabile. Neil Young è sempre incline ad affrontare il presente, a coglierne gli aspetti più grotteschi e pericolosi, con lo spirito ribelle e contraddittorio che gli è proprio.
The Visitor offre all’ultra-settantenne canadese l’occasione per affondare gli artigli della polemica nella sua amata terra d’adozione, gli Stati Uniti. Lo slogan trumpiano “Make America great again” riecheggia con sarcasmo in Already Great, fra imponenti chitarre distorte e vocalizzi in cui la voce di Neil si avvicina alle vette espressive dei tempi migliori. L’assunto è: l’America è già grande, Mr. Trump, non distruggerla! (“no walls, no ban, no fascism”).
The Visitor non manca di bei momenti
L’album, realizzato con i texani Promise Of The Real, ovvero Lukas e Micah Nelson (figli di Willie, quindi… di cotanto padre!) e prodotto dall’inossidabile Rick Rubin, è un’alternanza di musica affascinante e decadente, smagliante e opaca. Ascoltando ballate come Almost Always e Change Of Heart, si ha l’impressione che i tempi di Harvest Moon non siano poi così lontani. Al contrario, un blues dallo scarso mordente come Diggin’ A Hole e la latineggiante Carnival lasciano piuttosto perplessi (come avevano lasciato dubbi alcune scelte sonore nel precedente Peace Trail). Per ritrovare il pathos, la bellezza solenne e quell’incanto sottile e inesorabile con cui Neil ha saputo sedurre intere generazioni bisogna arrivare all’ultimo brano dell’album, la lunga e suadente Forever.
Il vecchio canadese, che ha messo a disposizione sul web il proprio immenso e prezioso archivio musicale, sa essere generoso e mordente. Suona con l’entusiasmo di un ragazzo e si concede qualche innocua défaillance, perché di fatto un ragazzo non è. E la libertà di non dover più dimostrare il proprio valore è preziosa.
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