1990: Neil Young (e i Crazy Horse) dal vivo in versione papà del grunge.
Neil Young sta portando avanti da alcuni anni un’opera di rivisitazione e di diffusione del suo sterminato archivio; punte di diamante di quest’operazione sono ovviamente i (finora) due cofanetti della serie Archives, il primo che copriva il periodo 1968 – 1972 e il secondo, uscito pochi mesi fa, che va dal 1972 al 1976. A fianco di queste operazioni, l’artista canadese ha poi fatto uscire tutta una serie di dischi dal vivo (le Performance Series) che testimoniano vari momenti dei suoi oltre cinquant’anni di carriera, spaziando dalle prime timide performance acustiche della fine degli anni ’60, al rock notturno della metà degli anni 70, al rhythm & blues della fine anni ’80.
Ancora un concerto dallo sterminato archivio di Neil Young
L’ultimo in ordine di tempo è questo Way Down In The Rust Bucket, doppio cd o quadruplo vinile, che riporta alla luce un concerto del 13 novembre 1990 al Catalyst di Santa Cruz e che immortale il canadese in corrispondenza di uno dei suoi numerosi turning point, ovvero il momento in cui, dopo la sbornia litigiosa e provocatoria degli anni 80 (fatta di dischi realizzati più che altro per dispetto all’interno di una dinamica di altissima tensione con la Geffen), l’artista canadese ritornava in sella, avventurandosi in un rock primordiale e sanguigno, riprendendo una certa qual innocenza da garage band assieme ai suoi fidati Crazy Horse.
Il risultato furono una serie di dischi quali Ragged Glory o il successivo Live Arc, dove veniva estremizzata una certa tendenza all’heavy rock chitarristico che già si poteva intuire nel disco elettrico di Live Rust del 1979, il tutto arricchito da un massiccio uso del feedback e da svisate noise.
Ed è proprio in questo periodo che Young viene infatti eletto come nume tutelare e padrino della neonata scena grunge e alternative rock statunitense degli anni ’90, grazie alla sua aura di artista che, nonostante i soldi, la fama, e il successo è ancora capace di scorticare a fondo la sua anima rock con un suono genuinamente sporco e potente.
Il suono di Way Down In The Rust Bucket
Ecco dunque lo scenario in cui collocare quest’opera che riporta un warm up live del tour che Young e i Crazy Horse faranno a supporto dell’uscita del già citato Ragged Glory. Il disco presenta quindi un artista in stato di grazia, che, con una scaletta che alterna pezzi all’epoca recenti a classici anni ’70, riesce a mettere a nudo la sua anima più elettrica. È un live godibilissimo, in perenne equilibrio tra melodia e rock muscolare, dove appaiono anche molto misurati e puntuali i lunghi assoli su cui spesso il canadese indulge (a volte un po’ troppo, secondo me).
Sul suono di chitarra è inutile dilungarsi troppo, essendo quello di Young e dei Crazy Horse uno dei punti più alti nell’intero panorama rock (personalmente ritengo Zuma uno degli album con il miglior suono di chitarra di sempre).
Cosa pensare dei Crazy Horse?
Semmai un po’ di riserve lo può suscitare l’impianto complessivo dal quale affiora ogni tanto una certa ripetitività e una povertà di sfumature; d’altro conto questo è uno dei limiti (o dei pregi, a seconda dei punti di vista) del suono dei celebrati/vituperati Crazy Horse.
Confesso che anch’io nei confronti dei tre compagni di Young ho un atteggiamento ambivalente, ispirandomi un’innata simpatia il loro approccio istintivo e immediato, ma dovendo d’altro canto anche rilevare dei notevoli limiti nel riuscire a colorare in modo adeguato le melodie illuminate di Young.
Da questo punto di vista esemplare è lo scambio di battute che pare il vecchio sodale David Crosby ebbe anni fa con Neil Young a proposito dei Crazy Horse, quando il baffuto californiano chiese al canadese “Ma perché suoni con questi coglioni?” e alla risposta sincera di Young “Perché hanno un’anima”, chiosò, caustico “Beh, anche il mio cane ha un’anima, ma mica gli faccio suonare la batteria”.
Se la ragione è dalla parte di Crosby, tuttavia il cuore è dalla parte dei Cavalli Pazzi e del loro rock elementare ed energico, lontano mille miglia dalle pose ricercate o eleganti di certo rock adulto. Sono brutti, sporchi e cattivi, lo sanno ed è proprio quello che vogliono e soprattutto che vuole Young, che tra alti e bassi, nel corso di quasi cinquant’anni ha fatto passare la sua musica per la chitarra da due accordi due di Frank Poncho Sampedro, il basso martellante di Billy Talbot e la batteria/metronomo di Ralph Molina.
Classici e meno classici del repertorio di Neil Young
E quindi ecco in questo disco scorrere brani da Ragged Glory, come l’iniziale Country Home, Love To Burn o la tirata Love and Only Love e alcuni episodi dal vituperato Re-ac-tor del 1981: Surfer Joe and Moe the Sleaze, che qui brilla di nuova luce, in una versione energica tutto cuore, e la filastrocca di T-Bone che consente a Young di srotolare la sua fantasia in un assolo, quadrato e misurato. Ma la parte del leone la fanno ovviamente i classici elettrici tratti da quello scrigno di tesori che erano i dischi di Young degli anni ‘70, come l’ipnotico blues elettrico di Danger Bird, o i deliri chitarristici di Cortez the Killer e di Like a Hurricane.
Su tutto, a mio parere, spiccano una versione magistrale di Cinnamon Girl, il muro chitarristico sulla melodia irresistibile di Don’t Cry No Tears e il punk tutto sangue e sudore di Sedan Delivery.
Un album quindi che riporta alla luce un Young elettrico, in grandissima forma, tirato e passionale, supportato dai fidati Crazy Horse in una prova live che, al di là di una qualche ripetitività e di un suono forse un po’ troppo uniforme (ma proprio questo cercava l’artista canadese), si lascia comunque apprezzare per la sua sincerità e generosità.
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