Tre dischi per l’inarrestabile (anche troppo) Neil Young.
Bob Dylan è stato il primo, come spesso accade nella storia del rock, ad aprire i suoi archivi disseminando nel mondo canzoni preziose, talvolta inedite, che solo in qualche caso erano conosciute dai fans più incalliti attraverso il mercato, clandestino e parallelo, dei bootleg. Neil Percival Young o chi per lui (pare che abbia appositamente assunto delle persone per occuparsene) ha invece trascorso anni a sistemare, con certosina pazienza, il percorso irregolare, umorale e idiosincratico di oltre mezzo secolo su e giù dai palcoscenici e negli studi di registrazione d’America.
Nel 2009, dopo molti rinvii, la Reprise Records rilasciava Neil Young Archives Vol. I, un primo cofanetto di dieci dischi blu-ray, o in alternativa altrettanti dvd oppure otto cd, che riassumeva la carriera dall’esordio con gli Squires, a diciotto anni nel 1963, fino al successo solista di Harvest nel 1972 passando dalle avventure con i Buffalo Springfield e con Crosby, Stills & Nash. Era l’inizio d’una profusione di pubblicazioni d’archivio, nobili e no, con cui l’erratico canadese provava a mettere ordine nella sua produzione esagerata.
La vivisezione del senso
A settantotto anni, dopo quarantacinque album solisti in studio che più o meno si raddoppiano considerando quelli dal vivo, con altri gruppi o artisti, le colonne sonore, le raccolte, eccetera, Neil Young ha deciso di continuare il 2024 con la pignoleria dispettosa per certi versi sublime, per altri indisponente, con cui aveva inaugurato l’anno precedente. Ecco quindi che nel solo primo semestre ha firmato ben tre dischi solisti dopo che solo l’8 dicembre dello scorso anno aveva pubblicato Before & After.
Nessuno di essi, e neppure gli altri due del ’23, Chrome Dreams e Odeon Budokan, rappresenta una novità. Il suo ultimo disco d’inediti resta World Record di due anni fa. Se Chrome Dreams è la ricostruzione d’uno dei tanti album mancati degli anni Settanta poi entrati a far parte della mitologia del personaggio, con canzoni traslate nei dischi successivi in versioni più o meno trasformate, e Oden Budokan, pubblicato per la prima volta quattro anni fa nel Volume II degli Archives mescolato ad altro materiale antologico, la somma di due concerti del 1976 nell’Hammersmith Odeon di Londra e nella Nippon Budokan Hall di Tokio, l’intenso Before & After contiene invece la riproposizione dal vivo e in versione acustica, in concerti dello scorso anno, di canzoni minori, ma ugualmente ammalianti, del repertorio d’una vita.
Early Daze
Per parlare dei tre ultimi dischi della catena di Santo Neil cominciamo dall’ultimissimo: Early Daze, annunciato come “una raccolta di registrazioni in studio rare e inedite” di cui “solo una canzone dell’album è stata precedentemente pubblicata (Dance Dance Dance) e nessuna delle dieci è stata edita su disco finora”. E allora?
Allora non c’è quasi niente di nuovo, essendo le canzoni tutte conosciute in versioni diverse, talvolta appena appena. Solo un/una innamorat* pazz* di Neil Young capace d’ingelosire Daryl Hannah può sdilinquirsi per un “different mix” della trascurabile Everybody’s Alone. O per la versione su 45 giri di Cinnamon Girl, che la leggenda vuole dedicata a Pamela Courson, donna di Jim Morrison, con il solo conclusivo della chitarra che non compare nella versione sull’album Everybody Knows This Is Nowhere, 1970.
L’eccezione è una inedita versione di prova in studio di Look at All the Things cantata dal suo autore, Danny Whitten: è più nuda ed epica di quella definitiva che sarà pubblicata nel primo, omonimo album dei Crazy Horse, 1971. La conosciamo già come anticipazione, per cui è facile prefigurarsi il resto del disco.
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Breve storia triste di Danny Whitten
Vale ricordare che la line-up dei Crazy Horse, storico gruppo spalla, in Early Daze è quella degli inizi. Whitten, appunto, chitarra e voce. Billy Talbot, basso e voce. Jack Nitzsche alle tastiere, tamburello e voce. Ralph Molina, batteria e voce.
Il senso del disco lo spiega la copertina, con Whitten al centro e gli altri, compreso il canadese, intorno a lui. Chi conosce la storia e le storie di Neil Young e dei suoi dolori capisce immediatamente: lo stordimento precoce di cui parla iI titolo è la bella musica selvaggia che quella formazione sapeva fare, e Whitten ne era un brillante protagonista prima che l’eroina se lo portasse via.
Il cantautore ha sofferto per anni del senso di colpa per la morte del talentuoso chitarrista. Lo richiamò nel 1972 per unirsi al gruppo che lo avrebbe accompagnato nei concerti dopo la pubblicazione di Harvest. Whitten, ormai tossicodipendente, non riusciva a suonare come sapeva fare. Young dovette rinunciare a lui: gli comprò un biglietto aereo per Los Angeles e gli diede cinquanta dollari perché non aveva un centesimo. Whitten comprò con quei soldi della benzodiazepina. Assunta insieme a degli alcolici, lo stroncò.
The Needle and the Damage Done, l’ago e il danno fatto, straziante ruminazione dal vivo alla chitarra di appena due minuti, penultima canzone di Harvest, racconta la parabola di Whitten. «Ogni drogato è come un sole al tramonto» conclude Young, disperato. Dopo oltre cinquant’anni, continuare a rendere omaggio al talento di Whitten non è più pagare un pegno, ma raccontarne la ricchezza.
Dume
Originariamente contenuto nei Neil Young’s Archives Vol. II (1972-1976), cofanetto di dieci cd pubblicato nel 2020, a fine febbraio Dume è stato diffuso per la prima volta in un doppio album a edizione limitata completamente analogica.
Se Harvest, nonostante i chiaroscuri nei testi, celebrava il sole del raccolto stilizzato in copertina, i tre tormentati dischi successivi, Time Fades Away del 1973, dal vivo con canzoni inedite, il notevole On The Beach del ‘74, il tetro e amaro Tonight’s the Night del ’75 (registrato prima del precedente, ma pubblicato dopo), costituiscono nella discografia dell’artista la cosiddetta “trilogia del dolore”. Dove cioè lui, con atteggiamento anti commerciale e autolesionista, cerca di farsi una ragione della morte di Whitten e, per overdose, del tecnico Bruce Berry, nonché dei traumi sociali che allora dividevano l’America: dagli omicidi della setta di Charles Manson allo scandalo Watergate.
Zuma, settimo album in studio anch’esso del ’75, oltre a contenere Cortez the Killer, una delle sue canzoni indimenticabili, rappresenta il chiarore dopo la tempesta. Il chitarrista Frank Sampedro entra a far parte stabilmente dei Crazy Horse. Il gruppo registra, appunto, a Dume, località nei pressi di Malibù, a ovest della contea di Los Angeles, dove c’era la casa di David Briggs, il produttore discografico di cui il canadese si fidava. Il risultato furono otto delle nove canzoni pubblicate su Zuma (l’ultima, Through My Sails, fu un’aggiunta dalle sessions di “Human Highway”, il progettato e mai realizzato album del ’74 di Crosby, Stills, Nash & Young), più otto registrazioni di prova: sono le sedici tracce oggi in Dume.
Tre delle seconde otto, Ride My Llama, Powderfinger e Pocahontas, cioè le migliori, saranno incluse, in versioni definitive, nel bellissimo album Rust Never Sleeps del ’79. Too Far Gone sarà pubblicata in Freedom dieci anni dopo. Born to Run e No One Seems to Know troveranno posto nella versione espansa dell’antologia Decade pubblicata nel 2012. Hawaii e Kansas saranno a loro volta incluse nei dischi Hitchhiker e Homegrown, pensati e mai pubblicati negli anni Settanta, infine editi, rispettivamente, nel 2017 e nel ’20.
L’artista ha detto la sua: “Zuma era pieno di ottima musica dei Crazy Horse, ma non c’era tutta. Dume è uno sguardo completo a quel periodo. Quando ascolti Dume, puoi capire perché alcune tracce non sono state pubblicate in Zuma. Hanno dei difetti qua e là, ma ora, guardando indietro a quel tempo, forniscono un’immagine chiara di noi che suoniamo nella casa di Dume con la nostra scheda a valvole e le macchine analogiche”.
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Fu##in’ Up, ovvero Neil Young dal vivo nel 2023
Il massimo dell’eclettismo perfido, ovvero del riciclaggio creativo della propria musica, Neil Young lo ha espresso, finora, nel camaleontico Fu##in’ Up, album dal vivo con i Crazy Horse, più Micah Nelson, pubblicato a fine aprile.
È stato registrato durante un concerto privato a Toronto, nel locale Rivoli, il 4 novembre 2023 per festeggiare i cinquant’anni di Dani Reiss, amministratore delegato dell’azienda di abbigliamento Canada Goose. Nell’occasione il cantautore e la band ribattezzata The Horse, da tempo priva di Sampedro, ritiratosi nel ‘12 a causa dell’artrite ai polsi per andare a fare il coltivatore di frutta alle Hawaii, ma con al suo posto Nils Lofgren, più il giovane figlio di Willie Nelson già componente di The Promise of Real, una band che ha registrato con Young quattro album negli anni scorsi, suonarono, tra l’altro, tutto Ragged Glory, disco del 1990, con l’esclusione dell’inno Mother Earth.
Nove canzoni, per sessantotto minuti di musica, costituiscono ora Fu##in’ Up. Il titolo ruspante (ehm … Fare ca##ate) non è un’opinione. Lo dimostrano i titoli delle stesse canzoni, chissà perché completamente cambiati rispetto a quelli che avevano in Ragged Glory, tranne Farmer John, rimasta tale e quale evidentemente perché ripropone un originale del 1959 a firma Don “Sugarcane” Harris e Dewey Terry. Young lo suonava da ragazzo negli Squires.
Il disco, la cui grafica interna richiama, curiosamente, quella che l’artista James Mazzeo predispose per Zuma quarantanove anni fa, per giunta a colori con toni psichedelici invece che, come allora, in bianco e nero, viene regalato a tutti coloro che acquistano i biglietti per i concerti del Love Earth Tour, attualmente in svolgimento negli Stati Uniti. La musica? Il solito rock elettrico rumoroso con tanto feedback e sonorità acide a cui il canadese, con i suoi sodali, ci ha abituato da decenni. Indubbiamente valido, ma altrettanto indubbiamente non indispensabile.
“Perché queste vecchie canzoni vivono in modo così vivido adesso? Lo fanno con me, nello spirito che viene offerto… Realizzato per gli amanti dei Crazy Horse. Non posso fermarlo. Il cavallo sta correndo. Sono così felice di avere questo da condividere”: così Neil Young spiega, fumosamente, il perché del disco. Preferisco ascoltare altri suoi album dal vivo, come Live Rust e Weld, 1979 e 1991, in cui il senso (auto)critico gli faceva tirar fuori il meglio, mettendolo al riparo dall’attuale, senile autoindulgenza.
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