I Pearl Jam non dimenticano le origini su Gigaton.
Sette anni sono passati da Lightning Bolt. L’attesa è stata lunga ma certamente ne è valsa la pena. Pearl Jam – Gigaton infatti è un album potente e compatto, molto rock. Il grunge non è scomparso del tutto, rimane come un filo rosso in sottofondo, soprattutto in alcuni riff e in qualche solo di chitarra. E resta intatta la rabbia della band. Dodici pezzi, quasi un’ora di musica. Pezzi lunghi, ma mai noiosi. L’album raramente perde di ritmo. Avanza spedito, forte, veloce. Diritto per la sua strada.
Un suono granitico
I due brani d’apertura partono con un 4/4 secco e preciso. Meglio chiarire subito: batteria e chitarra portano il tempo, mentre il riff di Who Ever Said si pianta sul battere. Eddie Vedder è in forma. Rabbioso e grintoso anche nelle parti più impervie del ritornello. Superblood Wolfmoon continua il discorso appena iniziato. Riff classici, con un intermezzo che ricorda il miglior Pete Townshend.
Dance of the Clarvoyants, il primo singolo dell’album, è forse quello meno Pearl Jam, nel senso che si ascolta un sound più sperimentale, su una cadenza che pare strizzare l’occhio al pop. Ascoltai il brano all’uscita. Non mi convinse del tutto e anche ora è uno di quelli che mi lasciano più perplesso, sebbene Jeff Ament lo abbia definito: «Una tempesta perfetta di sperimentazione e vera collaborazione».
Gigaton: non mancano le ballate tipiche dei Pearl Jam
Si continua con Quick Escape e con Alright, che rallenta il ritmo. Una ballad quasi psichedelica, appoggiata sul ritmo di una base elettronica che pare fare da monito per tutta la durata. Seven O’ Clock vola su una melodia molto on the road, che nei bridges è invece accompagnata da grandi aperture sonore, forse il brano che meglio mette in musica le sensazioni legate al titolo dell’album e alla (brutta) copertina. In Never Destination ritorna tutto il rock di partenza, riff in levare sulla metrica diritta e urlata di Eddie, così come Take The Long Way, scritta da Matt Cameron, riporta il grunge dal sottosuolo alla luce. Ancora presente. Ancora vivo. Stone Gossard firma Buckle Up. Un arpeggio pulito (sarà una Fender quella?) mentre la voce di Eddie, più che malinconica, pare essere densa di ricordi. Tre belle ballad chiudono l’album. Come Then Goes e Retrograde nella più classica tradizione Pearl Jam. La prima, acustica, quasi soltanto chitarra e voce, forse per l’amico Chris Cornell, la seconda più elettrica, più suonata, una nuova Sirens.
All’insegna della continuità
Infine River Cross. Organo a pompa, kalimba e sintetizzatori. Quasi una preghiera laica. «Share The Light», canta Eddie. Una delle composizioni più diverse e più riuscite dell’album. Un ottimo commiato. I Pearl Jam non perdono la rabbia. Combattono ancora. Non c’è solo Trump contro cui schierarsi. I nemici sono ancora tanti. E la lotta deve andare avanti. A modo loro la band di Seattle è ancora in prima linea. E Gigaton è forse il loro miglior album da molti anni.
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