Il nuovo disco solista di Pivio, Misophonia, chiude la ‘trilogia delle patologie sociali’.
Cosa spinge un affermato soundtrack composer come Pivio, insieme all’ottimo Aldo De Scalzi, a proseguire, con provocatoria caparbietà, una carriera solista distante dalle composizioni per celluloide e in grado di esprimere una cifra stilistica coerentissima con il suo provenir dal punk?
Chi segue le pagine social di Pivio può perfettamente capire come il suo “essere contro”, espresso nei suoi scritti e spesso ammantato di incompresa sagacia accompagnata dall’immagine dello scarabeo stercorario a simboleggiar un’epoca ben oltre il tramonto di ogni cosa, non sia residuale posa “radical che ne so”, bensì il proseguire di “un certo discorso”, come titolava un programma radio non a caso andato in onda tra il 1976 e il 1988, ossia 11 anni in cui cambiarono parecchie cose e non sempre in meglio.
Ecco quindi che il chiudere, ma chissà se poi sarà così, la sua trilogia su patologie allegorico/simboliche con Misophonia, ossia una sindrome di intolleranza al suono, tuoni come un proclama contro (di nuovo) l’effimero supposto musicale che pervade l’etere e che può causar psicotinnito ad orecchie avvezze a ben altri usi del pentagramma. Lo fa tramite un’opera in vinile – con splendida cover che a me ha evocato un Edward Hopper del futuro incrociato con Bacon – contenente nove brani, incluse tre ragguardevoli cover di cui mi accingo a dire.
Cover e originali
Wildest Dreams apre le danze, si far per dire, con melanconica bowianità, i sogni selvaggi possono essere evocati anche da incubi sonici, parole sue; da parte mia riconosco nella disincarnazione utilizzata per camuffare la voce, velata critica allo strautilizzo di quel device che farebbe sembrar intonato pure il mio atonale cantar. Dopodiché , coverizzando e meccanizzando (il Nostro è laureato in Ingegneria…) The Art Of Stopping degli Wire, il messaggio appare ancora più chiaro: sapersi fermare è un’arte, che sia in drammatico disuso è sotto gli occhi di tutti.
Fly to Rome, che pare omaggiare gli Air nell’incipit e nelle liriche iniziali, diventa subito pure elettro pop tanto vicino a quanto prodotto dalla Mute. È un episodio il cui titolo (che rimane molto biografico avendo il Nostro campo base nella città eterna e provenienza dalle lande del Doge supremo) e parte del testo quotano una cover successiva situata sulla facciata B, quella What Use dei Tuxedo Moon che viene sottoposta ad un trattamento radicale rispetto all’originale in misura tale da esaltarne il testo quantomai contemporaneo.
Never Understand è proprio quella dei Jesus And Mary Chain che, spogliata dai feedback originali, assume caratteristiche tra i Velvet Underground più sognanti e le suggestioni Lynchiane degli LCD Soundsystem, con i Suicide dietro l’angolo che osservano compiaciuti.
Lo spirito punk di Pivio e di Misophonia
Il Lato A si chiude con la pleonastica ironia al vetriolo di The Last Song Of The Side A, poi si gira il disco e la facciata B si apre con The Words I Say che si aggancia alla songs appena citata nella in/vocazione “won’t you listen to me?” contenuta in entrambi i testi. Sì, è dura sfuggire dalla misofonia quando si hanno troppe porte spalancate. Nobody Trust Art è di nuovo acuta invettiva verso chi oggi suppone di capir senza comprendere il concetto di Arte medesima e nelle dolenti emissioni vocali che si appoggiano ad un’aria teutonico marziale si evince tutto il malessere di questa consapevolezza da parte di chi ne ha fatto ragion di vita.
Dopo la già citata What’s Use il cerchio (vinilico) si chiude con Start Again, loops elettronici con piccole raffinate variazioni, pare quasi un episodio di Outside del Duca…e comunque un anelito di speranza sopravvive in queste note.
Supportato nei testi da Marco Odino (di cognome e di fatto, si cerchino le sue opera sul Tubo) e nei suoni da un nutrito stuolo di archi e sparuti fiati, Misophonia è post orwelliana consapevolezza in musica e l’auspicio è che il giovane punk ancora scalciante nel canuto cantore si mantenga tale ora et semper.
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