Dopo sette anni di silenzio PJ Harvey stupisce di nuovo con I Inside The Old Year Dying.
Per una delle figure di maggior spicco dell’ultimo trentennio musicale, sette anni di silenzio discografico sono tanti. In realtà, nel tempo intercorso dalla pubblicazione di The Hope Six Demolition Project (e da una tournée tanto estenuante da indurla quasi ad abbandore la professione di musicista) PJ Harvey si è data parecchio da fare: ha composto per colonne sonore, ha visto uscire le versioni “demo” di alcuni suoi album importanti e ha pubblicato Orlam, enigmatico romanzo in versi scritto utilizzando il dialetto del natio Dorset.
La poliedrica carriera di PJ Harvey
Proprio quello che poteva sembrare un progetto estemporaneo ha fornito a PJ lo spunto per ritornare alla canzone: i testi di I Inside The Old Year Dying (Partisan) provengono infatti da Orlam e sono stati musicati nel corso di un mese di intenso lavoro di studio insieme ai sodali di vecchia data Flood e John Parish.
Nella discografia di un’artista che alla continuità ha sempre preferito il cambio di registro netto lo si può considerare l’episodio più spiazzante. Non a caso, come era stato per il virginale, austero e zero rock White Chalk e per il corposamente concettuale Let England Shake, i pareri critici sono all’insegna di una certa perplessità.
I Inside The Old Year Dying: un disco ‘strano’
Registrato con modalità quasi punk (tutti insieme in sala d’incisione e molte “take one” diventate definitive), l’album suona misterioso e di primo acchito sfuggente. Ci sono momenti trasognati (i vocalizzi quasi metafisici di Prayer At The Gate ), inquietanti (il coro ‘a ondate’ dei bambini in Autumn Term), minacciosi (la voce maschile che interviene in A Child’s Question, July).
Le briglie del quattro quarti si sciolgono solo nell’incalzante title-track e mancano vere e proprie canzoni. Eppure, superato lo spiazzamento iniziale, ci si rende conto di come i suoni e le strane parole si fondano in modo che potremmo definire pittorico per creare un ambiente naturalistico poco sereno dove si incontrano e (probabilmente) si accoppiano una fanciulla dai capelli ricci e un temibile Guerriero-Elvis-Dio. Lo potremmo definire un idillio molto carnale con possibili tocchi autobiografici, come dimostrerebbe questa dichiarazione di Flood al mensile britannico Uncut: “Abbiamo cercato di portarla in un luogo dove non fosse ‘PJ Harvey’, ma soltanto ‘Polly'”.
Il disco funziona, e funzona molto bene, se ci si lascia andare al suo flusso, se si ‘guardano’ i suoni oltreché ascoltarli. I cinici diranno che si tratta di un progetto pretenzioso, che Lwonesome scritto così fa ridere e, magari, che PJ/Polly dovrebbe tornare al rock. Ma da tempo ormai lei non si cura di loro.
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