Ryuichi Sakamoto e Opus: la bellezza della musica senza doveri
La copertina virata color seppia d’un suo disco del 1990, Beauty, è la prima cosa che mi è venuta in mente approssimandomi a Opus, album postumo e, per come l’ha strutturato, inesorabile testamento artistico di Ryuichi Sakamoto. In quella copertina d’antan la foto faceva emergere le spalle e il volto del musicista nipponico non ancora quarantenne. La testa alta, gli occhi chiusi in apparente meditazione, parevano nutrirsi della bellezza evocata dal titolo.
Nessun narcisismo. Mettersi in copertina a un disco (notevole) che richiamava alla sensualità contemplativa significava piuttosto rendersi lo strumento attraverso il quale, con la musica, la bellezza stessa giungeva nel mondo. Era la concezione orientale dell’artista spiegata da Robert Fripp in uno dei suoi scritti arguti: il musicista non è il proprietario della musica, ma colui che le permette di manifestarsi nella realtà dell’udibile.
Una diretta conseguenza, percepibile in tutta la multiforme carriera del pianista di Nakano (un quartiere di Tokyo che da solo è grande quanto una città italiana medio-grande), è il suo fare musica non per obbligo, ma per convincimento. È, ha osservato Claudio Fabretti su Ondarock, l’affermazione dell’idea, propria di Wayne Shorter, della duty free music, cioè della musica libera da doveri. Il musicista diviene così l’eletto che, avrebbe detto Oscar Wilde, individua ed esprime la bellezza in quello che suona. Il bell’addio di Sakamoto in Opus non poteva essere altro da questo.
La colonna sonora d’un film (e d’una vita)
Nel settembre 2022, nella settimana tra l’8 e il 15, il musicista si è recato nello Studio 509 della NHK, la televisione pubblica giapponese. Lo accompagnava il terzogenito Neo Sora, regista, artefice delle riprese di Ryuichi Sakamoto: Opus, come si chiama il resoconto per immagini di quelle giornate creative e dolorose. Si tratta d’un film concerto girato in un elegante, austero bianco e nero, presentato in anteprima lo scorso anno all’ottantesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, riproposto il 17 maggio a Piano City Milano prima d’un tour estivo nel quale è stato proiettato in alcuni teatri italiani.
Opus ne è la colonna sonora. In scena, un pianoforte Yamaha: nient’altro. Oltre l’artista, nessun altro tranne Neo Sora, fuori quadro, che, con devozione, riprende il padre nell’ultimo concerto della sua vita.
Sakamoto ha selezionato venti composizioni che spaziano dagli inizi con la Yellow Magic Orchestra nel 1978 (Tong Poo) e nel 1981 (Happy End) all’eclettismo dell’album Smoochy, 1995 (Bibo No Aozora), alla magia del suo primo album per solo pianoforte (BTTB del ‘98 con due musiche: Aqua e Opus-Ending), al minimalismo elettronico con Alva Noto dell’album Vrioon, 2002 (Trioon), all’essenzialità dell’album Async, ‘17 (Andata), fino all’illuminazione dell’ultimo disco, 12, dell’anno scorso (20220302 Sarabande). In mezzo colonne sonore per pubblicità (Mizu no Naka no Bagatelle del 1983, Aubade 2020 del 2009) e per film (The Wuthering Heights del 1992, Solitude del 2004, Ichimei-Small Happiness dell’11) nonché tre inediti di sei anni fa. Uno, BB, è dedicato a Bernardo Bertolucci (1941-2018). Un altro, For Jóhann, è dedicato a Jóhann Jóhannsson (1969-2018). Il terzo, 20180219 (w/ Prepared Piano), è un omaggio alla sperimentazione dell’imponderabile.
Melodie per sempre
Sakamoto, provato dalla malattia e dalle cure, suona scalfendo il silenzio con una sobrietà disarmata, insieme fiera e umile, a tratti mistica, comunicando con tenue malinconia, e nobile rassegnazione, il senso della sua esistenza umana e artistica. Non c’è l’urgenza visionaria di sperimentare un suono, uno stile, un’idea: solo la volontà di congedarsi attraverso il dono allusivo, immateriale, della musica.
Pioniere instancabile dell’incontro, nel villaggio globale, tra le musiche tradizionali e le avanguardie orientali e occidentali, il musicista è stato un grande navigatore coerente tra generi molto diversi, talvolta opposti. Opus, nel suo pianismo spoglio, essenziale, ne è la cronistoria per certi versi definitiva. Sakamoto è riuscito sempre a non perdere il senso della sua identità: nell’elaborare la colonna sonora d’un videogioco (Lack of Love, 2000) o dei film di Bertolucci (L’Ultimo Imperatore, 1987, Premio Oscar insieme a David Byrne e a Cong Su, più Il Tè nel Deserto, 1990). Nel futurismo elettro-pop alla Kraftwerk come nella bossa nova che omaggia Antonio Carlos Jobim.
Certe sue melodie ce le ricorderemo per sempre. Prima fra tutte, naturalmente, Merry Christmas Mr. Lawrence, 1983, in origine cantata dall’amico David Sylvian nel grande film di Nagisa Oshima dallo stesso titolo dove Sakamoto, in versione attore, interpreta il capitano Yonoi, comandante d’un campo di concentramento a Giava durante la seconda guerra mondiale in cui viene recluso il maggiore neozelandese Jack Celliers, impersonato da David Bowie. Sakamoto-Yonoi s’innamora segretamente di Bowie-Celliers, caratterizzando umanamente, penosamente, una storia crudele dove i sentimenti degli uomini vengono condizionati dalla guerra che esaspera le differenze culturali, ma che concede anche inaspettati momenti di semplice, universale saggezza.
Alla fine, più che un congedo, Opus si staglia come uno strumento di educazione musicale che conduce alla scoperta d’un artista raffinato, cosmopolita, capace d’essere profondamente orientale, con radici salde nella tradizione, e insieme sovrintendere alle multiformi manifestazioni delle musiche moderne che dall’Occidente traggono origine. Tutto è riconducibile al suono del pianoforte, sincretismo che proietta nello spazio e nel tempo la sensibilità sublime d’uno dei grandi interpreti dell’immaginario musicale contemporaneo.
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