Santana: da Woodstock ad Africa Speaks.
Il 16 agosto 1969, quando i Santana (band) salgono sul palco di Woodstock, sono un gruppo piuttosto affermato nella Bay Area, ma ancora sconosciuto al grande pubblico. Il loro primo disco, registrato per la Columbia nel maggio precedente, sarebbe uscito di lì a poco, il 30 agosto per la precisione. È stato il promoter Bill Graham, il proprietario dei Fillmore, a credere in loro, a trovargli i primi ingaggi, a farli esibire a New York, a volerli fortemente in quel festival di cui ancora nessuno immagina l’importanza che avrà negli anni a venire.
https://youtu.be/AqZceAQSJvc
Adesso stanno per suonare di fronte a una marea di persone; anzi Santana (Carlos) aspetta pazientemente il suo turno che secondo le previsioni di Jerry Garcia dei Grateful Dead dovrebbe arrivare a notte fonda; tanto che i due decidono di condividere una pasticca di mescalina: c’è tutto il tempo per assorbirla e farsi trovare pronti al momento giusto. Ma – c’è sempre un ma – i gruppi che dovrebbero suonare nel pomeriggio sono bloccati nell’ingorgo intorno alla zona del festival, non riescono ad arrivare in tempo e qualcuno spinge Santana (band e Carlos) sul palco.
Un’esibizione a sorpresa
“Il resto dell’esibizione è una chiazza sfocata nella mia memoria, un ricordo veramente vago. Partimmo con Waiting, il brano d’apertura del nostro album, e fu quello il nostro sound-check. Ero in pieno trip, e ricordo di aver detto tra me e me: «Dio, ti chiedo solo di farmi suonare a tempo e col giusto tono». Mi aggrappai alle solite cose che mi aiutano a restare ancorato al gruppo: basso, charleston, rullante e cassa. Ripetevo a me stesso: «Non pensare alla chitarra, guardala». Si trasformò in un serpente elettrico, che si girava e si contorceva, e questo significava che le corde si sarebbero afflosciate se non fosse rimasto dritto. Cercavo costantemente di impedire al serpente di muoversi, pregando che l’accordatura tenesse”.
Santana fra molti successi e qualche delusione
Dalla Storia sappiamo com’è andata: l’accordatura ha tenuto e Carlos Santana è diventato uno dei musicisti più importanti del rock, con buona pace dei contestatori politici del Vigorelli nel 1977 o dei puristi che mal digeriscono il successo di brani come Europa o Corazon Espinado (di cui si celebrano i vent’anni in questi giorni con un’uscita in doppio vinile di Supernatural). Cinquant’anni dopo, una carriera che lo ha portato a suonare con tutti i migliori musicisti rock, blues e jazz della sua generazione, una serie di album fondamentali – alternati ad altri assolutamente dimenticabili (tra cui quello del 2017 con gli Isley Brothers davvero deludente) – Santana (band e Carlos) sono ancora qui con un piccolo gioiello come Africa Speaks.
Rick Rubin produce Santana – Africa Speaks
Prodotte da Rick Rubin le undici canzoni dell’album (che diventano tredici nella versione ‘Target exclusive’) colpiscono per la consueta rigogliosa componente ritmica, merito di un bassista sontuoso come Benny Rietveld e della lussureggiante batteria di Cindy Blackman, attuale consorte del nostro. Ma la vera sorpresa è la presenza della cantante Buika, spagnola ma con salde radici nelle Guinea Equatoriale (un passaggio nel 2013 al mai troppo rimpianto programma RAI Sostiene Bollani), voce ‘flamenca’ che duetta impeccabilmente con la chitarra di un Carlos Santana che sembra aver ritrovato come per incanto entusiasmo e intensità.
Tra i brani menzione di merito per l’orecchiabilissima Breaking Down the Door e per Blue Skies dove il duo diventa trio con l’aggiunta della voce di Laura Mvula. Ma tra afro, latin, fusion e rock, diventa davvero difficile scegliere in un disco davvero speciale, un’altra gemma da aggiungere alla discografia di uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi.
Una prima versione di questa recensione è apparsa qui.
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