I’m Deranged – Stella Burns Plays David Bowie è un omaggio rischioso ma riuscito a un Maestro
Partiamo dal presupposto che le cover versions di artisti di un certo calibro si dividono, quando va bene, in due categorie: quelle pedisseque, spesso abbastanza cringe, dove si cerca di imitare l’inimitabile raggiungendo livelli sublimi di comicità e quelle che prendono le canzoni, le destrutturano, le fanno proprie talvolta allontanandosi così tanto dall’originale da sembrare originali a loro volta e che sono, ça va sans dire, le mie preferite.
Breve storia di Stella Burns
Stella Burns, al secolo Gianluca Maria Sorace, già negli Hollowblue con ben 3 album – e con cui ebbe l’ardito onor di incidere un brano con Anthony Reynolds dei Jack, di cui consiglio andar a cercare ascolto, titolo Io Bevo – ha al suo attivo due dischi solisti piuttosto intriganti nei quali fonde la propria poetica da lonesome cowboy, molto prima delle gioie queer di Orville Peck, con influenze indubbiamente debitrici al cantante oggetto di questo sentitissimo labour of love.
Dopo una stasi necessaria, a tratti dolorosa ma, per fortuna, superata, Stella Burns torna alla carica con I’m Deranged – Stella Burns Plays David Bowie, un EP pubblicato da Brutture Moderne/ Love & Thunder e composto da 6 brani tutti ammantati da quello che non si può definir altrimenti se non amore, con la B maiuscola.
I’m Deranged – Stella Burns Plays David Bowie sceglie un repertorio non ovvio
Coraggiosissima sia la scelta dell’idolo che i brani, non proprio i più canonici e noti, e già da qui si capisce che siamo dalle parti di chi il Duca Bianco non lo ha ascoltato post Let’s Dance ma metabolizzato molto, ma molto, prima.
La partenza è affidata al titolo dell’EP, quella I’m Deranged jungleggiante apparsa su Outside.01 e che accompagnava le visioni Lynchiane di Strade Perdute e il lavoro fatto è già osannabile Spogliata da velleità drum & bass, la canzone acquista una dolente intimità con malinconici arpeggi iberici mentre la voce si appoggia alle parole con l’inflessione di chi il dolore lo ha conosciuto, molto prossima alle ultime emissioni vocali apparse in Blackstar. La sorpresa poi di ascoltare la voce di Bowie medesimo campionata non lascerà un occhio asciutto nella stanza mentre piano e fiati, introdotti con efficacia quando men che ci si aspetti, faranno il resto.
Shadow Man è un altro di quei brani che, prima di apparire ufficialmente in Toys, ha vissuto una vita di rimaneggiamenti e trattamenti, a cura dello stesso autore, sin dalla sua prima versione del 1971. È una sorta di song maledetta che viene qui trattata come se stessero passandoci davanti polverosi chaparal in un deserto interiore dove l’acqua sta per finire e si decide di usare le ultime forze per eludere l’inevitabile intonando una melodia che diventa, così, definitiva.
We Are The Dead, che proviene da quel monolito ancora da approfondire che fu Diamond Dogs, figlio di un 1984 abortito, viene cantata utilizzando un microfono anni’50 perché la patina testuale venga onorata da un passato, che oggi definiamo atompunk, la cui estetica immaginata di un futuro possibile è purtroppo oggi solo un’illusione per un presente disatteso. La voce di Stella Burns impressiona su lastra un dagherrotipo perfettamente a fuoco rappresentante l’apocalisse glam che fu e che sarà.
Rubber Band appartiene ad un passato bowiano primevo e ad un periodo molto roundabout di un certo pop inglese; l’incedere bandistico della versione originale diventa quasi cameristico mantenendo una marzialità mitteleuropea cara a Brecht e Weill che, sornioni, continuano anche da lassù, a mietere omaggi.
Where Are We Now è un passo coraggioso, la canzone è stata simbolo di una epifania attesa e fugace, nessuno si aspettava più nuove cose da Bowie e questo ritorno, con affezionato ricordo al periodo berlinese, assume, nella nuova veste di Stella Burns, l’allure di una Torch Song in cui lo scarno arrangiamento affidato agli archi e l’accompagnamento per pianoforte ce lo fanno immaginare appoggiato ad uno Steinway dove basfemi bicchieri di assenzio stazionano vicino alla tastiera.
La conclusione viene affidata all’essenzialità feng shui di Eight Line Poem, quadretto eretico presente nell’Hunky Dory che precedette l’avvento di Ziggy. La sola chitarra e la voce sono registrati in un’unica take e dove si rende omaggio, senza chiederne il permesso che son certo sarebbe stato accordato, alla bowiana Clara che diventa Lupa, la gatta di Burns, maybe another cat from japan…
Prodromico all’uscita del nuovo lavoro del poliedrico Stella Burns, questo EP è un must have per chi ancora attende la nuova venuta.
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Quando ti paragonano molto a un artista con il quale onestamente riconosci di avere dei debiti a livello di stile e ispirazione, o lo eviti accuratamente, o fai un azzardo e un gesto d’amore. Stella Burns ha fatto un omaggio che dimostra proprio la sua personalità e insieme rispetta le canzoni. Si sente umiltà e tanta ammirazione. Io trovo l’operazione commovente, oltre che perfettamente riuscita sul piano artistico.
Grazie di cuore Luca