I Goon Sax si diplomano e incidono il secondo album.
Dei Goon Sax si era già parlato qui in occasione del disco d’esordio, Up To Anything, opera che era piaciuta soprattutto per l’energia dei tre giovanissimi rocker australiani. Nel frattempo, ci dice la rete, i tre hanno completato con successo gli studi e si sono quindi dedicati al nuovo album, il qui presente We’re Not Talking.
La novità maggiore è il più intenso coinvolgimento della batterista del gruppo, Riley Jones. Stavolta anche lei canta, modificando un po’ l’equilibrio del gruppo. Tuttavia, l’unico vero brano completamente a sua firma, la ballata malinconica Strange Light, parte bene ma non va oltre la sufficienza.
We’re Not Talking tenta strade nuove
La musica che si ascolta nei primi solchi di We’re Not Talking risulta un po’ più frenetica rispetto all’esordio con sussulti schizoidi che sembrano provenire dall’ascolto dei primi Talking Heads, dopodiché l’atmosfera si calma. Le influenze originarie rimangono ben salde: sia quelle inevitabili, dato che Louis Forster, leader del trio, è figlio del Robert dei Go-Betweens, sia quelle meno prevedibili. Ad esempio, nella brevissima Somewhere In Between è chiaro il richiamo alla geniale e sgangherata verve di Jonathan Richman.
I peccati di gioventù dei Goon Sax
Come ogni seconda prova, We’re Not Talking soffre un po’ della sindrome del seguito. Si percepisce infatti il tentativo (in buona parte riuscito) di riproporre una formula fortunata deviando a destra e a sinistra per produrre qualcosa di più intenso e originale. In realtà, pur trattandosi di una band giovane, i Goon Sax piacciono (già) di più quando ricordano se stessi rispetto a quando intraprendono strade meno personali. Ma questi sono innocenti peccati di gioventù, certamente perdonabili.
Più disturbante, in senso estetico, è l’uso, nei titoli, di numeri e lettere al posto delle parole (Make Time 4 Love, Sleep EZ). Chissà, forse il vezzo tipico di Prince e di molti altri artisti ha già, almeno in Australia, un irresistibile fascino vintage…
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