Una conoscenza anche personale di vecchia data: The Psychedelic Furs.
Non sarò breve. La mia storia con gli Psychedelic Furs è iniziata con il primo album e, direi, non è mai finita. All’epoca si trovava solo la versione americana e la latitanza di Bowie veniva abbondantemente compensata dalle atmosfere e dall’uso della voce. È proseguita con due giornate passate con loro a Genova in occasione del concerto, periodo Mirror Moves, e sono stati i primi “idoli” conosciuti di persona che non mi hanno deluso, anzi.

Oramai non so quanti si aspettassero e/o sperassero in nuove composizioni visto che il periodo intercorso tra World Outside, ultima uscita del 1991 e questo Made Of Rain ha sfiorato la trentina d’anni. Annunciato online da prime canzoni e posticipata l’uscita a fine luglio mi accingo quindi a sdilinquirmi, brano per brano, su un disco che vede in formazione ovviamente i fratelli Butler, Richard e Tim, unici rimasti della formazione originale, più sodali dell’ultimo periodo e new entries.
Made Of Rain, l’atteso ritorno degli Psychedelic Furs
The Boy Who Invented Rock’n’Roll è un mosaico di suoni stratificati che la dice lunga sul fatto che la band dei fratelli Butler è sul palco da almeno due decenni, con affiatamento impressionante. La canzone non è quella con cui avrei aperto il disco ma chi sono io per criticare?
Don’t Believe era già nota da qualche mese, era tra quelle che aveva creato aspettative in alcuni, delusioni in altri. Io, alla sua uscita mi misi alla finestra. You’ll Be Mine comincia a scaldare i motori, parte con una esplicitissima citazione di Venus in Furs, guarda caso, dei Velvet Underground, sfocia in melodie mediorientali e, nonostante tutto, compresa la mia ferma impressione di sentirci la viola di John Cale, inizia dopo diversi ascolti ad essere molto apprezzata. Wrong Train si pone tra le classiche love songs dei Furs, molto affine per suoni all’ultimo album uscito ben 29 anni fa. La voce di Butler si evolve in un cantato molto più ricercato e sfumato che non in passato, una canzone che poteva stare tra le migliori nella produzione anni 90 di David Bowie. Si sa, i padri son quelli ed è difficile emanciparsi.
Non solo revival per gli Psychedelic Furs di Made Of Rain
This Will Never Be Like Love parte come una ballad fifties molto classica, la voce si spinge ancora in territori nuovi, verso una melodia inedita alle corde di Butler ma il vero capolavoro accade circa a metà quando, d’improvviso, da un drive-in americano ci proiettano senza alcun avviso in un cabaret berlinese dove Brecht e Weil , da anni fans delle pellicce, li applaudono. Ash Wednesday ha una costruzione molto particolare, un elaborato intarsio di percussioni e sax, che in questo album torna a fare alcune differenze come nei primi della band. Sotto la voce un soffuso tappeto di pioggia elettronica forma una nuvola affatto minacciosa che promette un temporale che mai si paleserà se non quando, all’improvviso , si apre a una linea melodica completamente diversa, quasi una giga per poi tornare ad una scansione simile alla partenza. Gran lavoro produttivo.
Come All Ye Faithful ha preceduto l’uscita e non mi ha fatto fremere per l’attesa. Ok è un bel mantra, Butler torna a salmodiare, l’ottone spazia tra medioriente e est europa, poi si parte per il sermone vero e proprio, strali sovrapposti di chitarre e rumori, un testo al vetriolo e, dopo diversi ascolti, ecco lì che non te la togli più dalla testa. No One è un bel bridge tra il passato più luminoso e il futuro di oggi. Poteva benissimo stare a cavallo tra Forever Now e Mirror Moves, poi è arrivato il periodo lacca e cocaina e l’Amerika se li è magnati da Mezzanotte a Mezzanotte.
Grandi momenti ma anche qualcuno più fiacco
Tiny Hands apre neoclassica, mi piacerebbe sentirla cantata da Nico ma è tardi. Butler è di nuovo maleducato con la voce per poi correggersi subito, frammenti di noise precedono un ritornello zucchero miele e cannella che ne deturpa un po’ la vena velvettiana iniziale ma la si perdona. Hide The Medicine, ma chi sono, i Cocteau Twins? Veramente, incredibile inizio 4AD per una ballatona protettiva, ma tra le cose migliori di questo disco bizzarro dove la stessa canzone puoi amarla e odiarla a seconda se la senti o la ascolti, e la differenza non è così sottile. Una voce femminile accompagna il chorus, davvero una canzone che pare stata nascosta da qualche parte per anni. Turn Your Back On Me mi arriva un po’ urticante, sarà che alla quarta ballata di seguito comincio a sentire la mancanza della vena più sporca della band. Decisamente un brutto modo di avvicinarsi alla fine del disco.
Stars, a cui è affidata la chiusura del lavoro, produzione al solito mostruosa a parte, è filastrocca laconica e con poco appeal ed evidenzia alcuni limiti melodici anche nel cantato, poi intraprende una atmosfera quasi gotica e con una ritmica ferroviaria inizia poco prima di finire in uno strale che pare avere alcune affinità con un neoprog assolutamente inaspettato.
Ne è valsa l’attesa? In questo caso, spero, non ai post l’ardua sentenza.
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