I These New Puritans di Crooked Wing continuano a sagomare la loro bellezza difficile.
I These New Puritans danno un senso alla loro inconsueta sigla artistica quando, dopo un esordio un po’ generico, pubblicano il loro severo e potente secondo album Hidden. Titoli come Attack Music o We Want War, spade sguainate o catene usate come percussioni, un’orchestra da camera (oscura) con oboi, clarientti e fagotti evocano mondi foschi eppur attraenti al punto da indurre il NME a premiarlo come miglior disco del 2010.
Ma i gemelli Jack e George Barnett sono tipi irrequieti, amano cercare la bellezza nell’asprezza – o viceversa – e così lasciano la strada dai vertiginosi panorami appena imboccata per una dimensione pastorale, austera, evocativa ma anche poco tangibile. Come a dire che sia Field Of Reeds (2013) sia Inside The Rose (2019) si fanno ammirare, a tratti anche molto, faticando però a coinvolgere davvero.
Crooked Wing è, ancora una volta, un disco impegnativo
Il nuovo disco arriva a sei anni dal precedente ed è una sorta di summa del pensiero artistico dei TNP. Si apre con l’emblematica, fin da titolo, Waiting: emozioni che non vogliono troppo lasciarsi andare affidate a un organo a canne (di una chesa austriaca) e le voci del Southend Boys Choir (straordinaria quella da soprano del solista). Tutto il resto del lavoro resta in questa dimensione trattenuta, a volte sospesa, in cui si richede a chi ascolta di estrapolare il pathos che gli autori lasciano sotteso.
A volte il gioco dell’autocoinvolgimento riesce e ci si trova in mondi quasi fiabeschi, a volte l’insieme risulta troppo estenuato ed estetizzante tra carillon, fiati quasi metafisici e voci eteree. Certo, sarebbe bello ci fossero più passaggi ritmati, ma evidentemente l’enfasi di Hidden appartiene ormai al passato. Lo dimostrano A Season in Hell che parte con minacciosità quasi industrial per poi vaporizzarsi progressivamente o la title track, un po’ plumbea alla Scott Walker un po’ eterea alla David Sylvian.
Una strana storia d’amore
Ci sono qua e là sprazzi melodici di notevole fascino che tendono a fuggire via troppo presto e l’unica vera e propria canzone è Industrial Love Song, duetto vocale fra Jack Barnett e la cantautrice/indie rocker statunitense Caroline Polachek. Le protagoniste della storia sono due gru in un cantiere edile, ovvero l’amore dove sembra difficile immaginarlo, quasi a simboleggiare lo spirito, l’idea base di tutta l’opera. Però la prossima volta, cari fratelli Barnett, lasciatevi andare un pochino di più.
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