Tinariwen - Amatssou

Evoluzione nella continuità per i Tinariwen di Amatssou

Amatssou è un termine tamasheq che esorta ad andare oltre la paura e, oltre che il titolo del loro ultimo lavoro, sintetizza eloquentemente la vita e l’arte dei sei musicisti appartenenti alla band Tinariwen. Non hanno esitato a difendere con le armi la libertà e l’indipendenza del loro popolo né a continuare a suonare malgrado le minacce ricevute dai gruppi salafiti che infestano l’area subsahariana e il Mali. Profondamente legati alla loro terra dalla quale traggono grande ispirazione, per la musica sono spesso stati costretti a emigrare altrove per registrare, come nel deserto californiano di Joshua Tree. Invece per Amatssou (Wedge), che inizialmente avrebbe dovuto essere registrato allo studio di Jack White a Nashville, le cose sono andate in modo molto elaborato. Causa la pandemia i Nostri hanno suonato in una tenda nel sud dell’Algeria e poi via etere sono entrati in connessione con Fats Kaplin e Wes Corbett a Nashville e Amar Chaoui a Parigi, mentre il produttore Daniel Lanois agiva a Los Angeles.

La notorietà internazionale dei Tinariwen inizia nel 2002

Dopo una lunga attività musicale – è del 2002 il primo disco circolato in Occidente – e una decina di dischi lo stile dei Tinariwen è ormai ampiamente riconoscibile e ben si sa cosa aspettarci, né probabilmente nessuno pretenderebbe da loro mutamenti di rotta. Carta che vince non si cambia, il che non vuol dire che la loro proposta musicale abbia perso mordente e fascino o che ci troviamo davanti a musicisti che si siano seduti sugli allori e abbiano perso a voglia di sperimentare. Ce ne accorgiamo subito col primo avvolgente e ipnotico brano, Kek Alghalm, dove infatti subentra il banjo di Corbett a dialogare con le chitarre serpeggianti tipiche del desert blues dei Tinariwen, mentre nella successiva Tenere Den è il violino di Kaplin a creare linee melodiche malinconiche ad accompagnarne il canto rivoluzionario.

Non solo blues, ma anche country americano ‘primigenio’ in Amatssou

Il banjo lo ritroveremo nella notturna e magnetica Arajghiyne, mentre la pedal steel disegna paesaggi sonori suggestivi ed evocativi dei vasti spazi desertici percorsi da venti polverosi nella splendida Jayche Atarak che si libra come un sacro canto ancestrale. Il lavoro in post produzione di Daniel Lanois, immaginiamo in pieno accordo con la band, ha arricchito il sound dei Tinariwen con elementi provenienti dalla tradizione country americana, quella più rurale e antica, quella dell’Anthology of American Folk Music, offrendoci così una nuova chiave di lettura della musica subsahariana, fino a ora vista essenzialmente nel suo legame con la tradizione blues. Un legame che possiamo trovare anche attraverso i testi che nel caso dei maliani sono molto più politicizzati, ma che come nel blues e nella musica degli Appalachi trae linfa dall’oppressione e dalla sofferenza del popolo, lì le polveri nere delle miniere di carbone, qui quelle gialle della sabbia portata dal ghibli.

Prima di chiudere ci limitiamo a segnalare lo splendido assolo di chitarra in Imidiwan Mahitinam, il violino in Imzad, il blues polveroso intessuto dalle chitarre in Tidjit con tanto di battiti di mano e canto botta e risposta che ci fa sentire nel deserto intorno al fuoco a partecipare a un rito collettivo, la psichedelia di Ezlan e infine la breve conclusiva Tinde, solo percussioni e una voce femminile, un momento di vita comunitaria, una danza nella notte, l’orgoglio di una cultura indomita e combattiva, il senso di libertà dato dall’immenso cielo stellato che brilla sul Sahara e sui suoi abitanti.

 

Tinariwen – Amatssou
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Nato nel 54 a Palermo, dal 73 vive a Pisa. Ha scritto di musica e libri per la rivista online Distorsioni, dedicandosi particolarmente alla world music, dopo aver lavorato nel cinema d’essai all’Atelier di Firenze adesso insegna lettere nella scuola media.

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