TRAUM

I Traum prima dei Traum.

L’esordio omonimo dei Traum, connazionali nonostante il programmatico e immaginifico nome tedesco (significa “sogno”), è un disco antico, avveniristico e favoloso. Il gruppo riunisce musicisti noti dell’underground sonoro italiano. Lorenzo Stecconi e Luca Ciffo alle chitarre, con il secondo anche al basso. Luca T. Mai al sintetizzatore e al sax. Paolo Mongardi alla batteria.

I quattro si trovano a suonare insieme. Si piacciono, provano ulteriormente. Due anni fa decidono di vivere e fare musica, per una decina di giorni isolati dal mondo, in una casa di campagna. Lì trovano una sintonia delle loro personalità e spontaneamente elaborano, spesso attraverso delle improvvisazioni, le composizioni che poi entreranno a far parte dell’album.

Otto strumentali

Sono otto strumentali che, concettualmente, trasmettono all’ascoltatore il senso complessivo dell’opera. Singolarmente, rivelano invece un’autonomia propria. Si parte con il deliquio lisergico di Kaly Yuga, tra echi tribali che evocano gli Amon Düül II e i Faust del quarto, omonimo disco, 1973. Si passa all’altrettanto psichedelica Vimana, arricchita però da sonorità solenni alla Popul Vuh.

Introdotta da fischi di bolidi interstellari alla Tangerine Dream di Alpha Centauri, ‘71, si staglia l’introspettiva Katabasis con la sua elettronica free form. Poi i bagliori della cavalcata abissale di Inner Space, dove i Joy Division intersecano i Can e il cui titolo evocativo forse non è una coincidenza: si chiamava così lo studio, con annesso registratore a due piste, allestito da Holger Czukay (1937-2015) nel castello di Nörvenich, presso Colonia, dove iniziò l’epopea degli stessi Can.

In Antarctic Dawn paiono rivivere certe atmosfere ambient care al Manuel Göttsching di Inventions for Electric Guitar, ‘75. La meditabonda Infraterrestrial Dub non sarebbe dispiaciuta agli Orb. Nella successiva Erwachen, dei nervosi soundscapes alla Robert Fripp s’incagliano in un sax allarmante che fa venire in mente quello emozionale del David Bowie di Low, ‘76.

La composizione conclusiva, Eterno Ritorno, è anche la più breve e inquietante: una chitarra elettrica distorta lascia in primo piano la melodia di un’altra chitarra elettrica che rammenta, ma con dolore e non gioia, quella di Daniel Fichelscher, polistrumentista compagno d’avventure di Florian Fricke (1944-2001) nei menzionati Popol Vuh e attuale batterista dei redivivi Amon Düül II. Conclude inaspettatamente, di colpo, l’unica frase sibilata. Si tratta d’un anatema contro il consumismo del Pier Paolo Pasolini corsaro: «È un potere che manipola i corpi in un modo orribile che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler».

Derivativi? No

Mi sono accorto d’aver evocato leggende e fantasmi della straordinaria scena artistica e musicale tedesca degli anni Settanta, e non solo, potendo lasciare il dubbio d’una propensione dei Traum al citazionismo e alla retromania. Niente di tutto questo. Il viaggio sonoro che compiono e propongono semmai riattualizza con naturale propensione alla riscoperta dello stupore, ma senza funghetti, cartine colorate e cilum, quell’idea della musica per la mente propria della psichedelia, dalla più ingenua alla più intricata. «Feed your head»: nutri la testa, cantava Grace Slick dei Jefferson Airplane.

Il “cibo” della mensa Traum è di prim’ordine e attiene all’esplorazione onirica attraverso la ricerca del suono. Cielo e terra vengono continuamente puntati da diverse prospettive dell’orizzonte, a seconda del momento con volontà trascendente e catartica. C’è passione e professionalità, volontà comunicativa e senso della bellezza, angoscia da straniamento ed esplorazione del mistero.

Entrambi i filoni della “kosmische Musik” derivata dagli insegnamenti di Karheinz Stockhausen e dalle attività culturali di Rolf-Ulrich Kaiser, quello “solare” e quello “lunare”, sono presenti nelle sonorità dei Traum. Il primo tende all’infinitezza degli spazi stellari e alla serenità che infondono. Il secondo, ctonio, all’astrattezza cacofonica e al senso dionisiaco. I Traum, però, li coniugano a modo loro. Ne scaturisce un disco che, tra suggestioni ipnotiche e derive siderali, se la giocherà inevitabilmente tra i migliori dell’anno.

Post scriptum

Mi sono ben guardato dall’avvalermi della parola “kraut”, diminutivo di “krautrock”. C’è, ritengo, un’eccellente ragione. Nonostante Julian Cope l’abbia sdoganata nella sua pubblicazione Krautrocksampler, 1995, personale e appassionato vademecum delle suggestioni musicali teutoniche, “krautrock” nacque nel 1971 come espressione denigratoria lievemente sciovinista, se non invidiosa, del settimanale musicale inglese Melody Maker, seguito a ruota, senza tanto andare per il sottile, dalla superficiale critica musicale americana.

Certe sonorità, avanguardia pura per quei tempi progressivi, sono state ben assimilate e rielaborate: i Traum sono lì a dimostrarcelo. Tamponare, quindi, la ben nota acidità dei crauti attraverso un cliché banalizzante dal sottofondo xenofobo sarebbe stato non solo una mancanza di rispetto, ma un’imperdonabile riduzione di complessità.

Es lebe kosmische Kuriere.

Traum - Traum
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Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

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