vignola stretto

 vignola strettoverdena 2015

Dopo avere esaminato il pop sanremese, John Vignola affronta lo spinoso tema del rock italiano e della sua vita perennemente oscura. Se l’analisi è al solito acuta, non possiamo fare a meno di notare la mancata menzione di due noti solisti emiliani portabandiera del settore e di un barbuto ex rapper (più o meno) oggi sulla cresta delle  copertine di qualsivoglia rivista nazionale. Il perché di quest’assenza ci verrà spiegato da Vignola nella prossima puntata della sua rubrica? 

“Chissà, forse invecchieremo parlando del ‘problema del rock italiano’, dell’’impossibilità di un rock italiano’ e cose simili. Eppure il primo rock tricolore, quello di Celentano e Ghigo, nasce con poco ritardo, circa un anno,  rispetto all’originale americano; un ritardo che, considerata la velocità delle comunicazioni a metà anni ’50, è davvero trascurabile. Poi abbiamo avuto il nostro beat, simpatico ma non decisivo, negli anni 60 e un prog stimato anche all’estero nei ’70 (per non parlare di un gruppo unico come gli Area). La nostra new wave inizio 80 (Gaznevada, Skiantos, Litfiba, Diaframma)  lascia ancora oggi bei ricordi, dopodiché sono arrivati gli anni 90 del rock italiano primo in classifica con i CSI e i Marlene Kuntz, ma è stato un attimo. Da allora non si è visto molto. Il problema sta in questo binario che corre parallelo al rock, questo elemento percepibilmente nazionale, o comunque locale, sempre presente in chi fa rock e vende molto, come nel caso di Edoardo Bennato o Pino Daniele. In Italia il rock nel senso classico, o anche alt-, del termine non attecchisce. Forse è per la nostra incapacità di liberarci dalla grande tradizione del melodramma risorgimentale, forse è per il senso di appartenenza di cui si diceva. 

httpv://www.youtube.com/watch?v=7FsolYdZVKM

Ghigo – Coccinella

Ciò non toglie che il nostro rock abbia comunque degli alfieri. Oggi che le cose non  si vedono più attraverso la lente, peraltro distorta, della vendita dei dischi, la nuova lente è rappresentata dai concerti e a riempire le sale sono soprattutto Caparezza e i Verdena. Il punto è che non parliamo di giovani promesse: pare incredibile, ma i Verdena  esistono da vent’anni. Sembravano ragazzi e sono ancora qui, con il loro rock che spazia dai Motorpsycho ai Beach Boys e che ha qualcosa di fascinosamente retrò.  Bello sapere che i Verdena sono figli della furia; la musica ha bisogno di scosse e loro  le sanno dare. Però dietro i Verdena non vedo molto, anche se promettono bene i Kutso con il loro incrocio tra surrealismo e Led Zeppelin. Difficile dire se c’è (e dov’è) il nuovo rock italiano. I talenti da talent finiscono negli show televisivi; chi suona rock finisce nel proprio Club di Topolino, nel proprio piccolo reame. Il senso di questa favola gotica è semplice: la musica di un certo tipo è la passione di pochi ed emarginati. Una chance però c’è sempre, per quanto io non veda un futuro rock strutturato e il sole dell’avvenire debba ancora sorgere. Anche i Ministri non sono giovanissimi;  Brunori, Dente, Marta Sui Tubi giocano fra rock e canzone d’autore. Quanto agli shoegazer italiani, bravissimi, di cui si parla sul sito, mi pare facciano rete con il resto del mondo e non con il rock italiano e forse è giusto così, dato il contesto minoritario della nostra scena. Ritornando ai Verdena, sono una grande realtà che canta e balla da sola. Spero che qualcuno mi sbugiardi al più presto.” 

httpv://www.youtube.com/watch?v=r6RxxYqQgHg

Verdena – Un po’ esageri

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