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Come da consolidata attitudine della critica rock, il biennio 1974-75 è considerato un’area grigia schiacciata fra un prima e un dopo molto più entusiasmanti, un periodo in cui l’idealismo hippie si è trasformato in corsa al denaro o all’eroina mentre le chitarre del nuovo disordine mondiale non hanno ancora un amplificatore. Ma fu davvero così? Quarant’anni dopo vale la pena riparlarne.

 

di Antonio Vivaldi

Che la fase espansiva e idealista del rock sia già finita nel 1972-73 è inoppugnabile. I Led Zeppelin viaggiano a bordo di jet privato munito di caminetto, Eric Clapton mette più impegno nel finire le bottiglie di whisky che non gli assoli e la morte di Nick Drake, il 25 ottobre 1974, sancisce l’impraticabilità della purezza artistica. Eppure, fra la nuvolaglia dell’imborghesimento e della gigantizzazione senz’anima si scatenano ancora piccoli temporali, alcuni dei quali si trasformeranno di lì a un paio d’anni in autentici uragani.

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Cominciamo la nostra controinchiesta (termine di moda giusto a metà anni ‘70) dalla Gran Bretagna.  Il 1974 è, innanzitutto, l’anno degli Sparks o, quantomeno, della loro grande affermazione europea, soprattutto oltremanica e in Francia (mentre in Italia si teme che i baffetti di Ron Mael celino simpatie neo-nazi).  I fratelli Ron e Russell Mael sono californiani che al sole della West Coast preferiscono dichiaratamente le brume di Londra, dove si trasferiscono per incidere il loro terzo album, Kimono My House. Si tratta di un lavoro rutilante e anfetaminico, nostalgico e ironico, cabarettistico e hard-rock, transgender (la voce in falsetto di Russell) quando il termine ancora non esiste e, come da Bignami sonico, super-decadente. Influenzerà la new wave (Siouxsie ne riprenderà il singolo capolavoro This Town Ain’t Big Enough For Both Of Us), i gruppi synth-pop dagli anni ’80 a oggi e lascerà un’impronta indelebile sul giovin Morrissey.

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Paillettes, travestimenti, suggestioni mitteleuropee, epos oscuro; tutto questo campionario tra il tragico e il grottesco viene portato alle estreme conseguenze da David Bowie in Diamond Dogs, l’album che si apre con la celebre frase: “Questo non è rock’n’roll/ Questo è genocidio”.  Nel suo fondere glam e visioni distopiche il disco pare a molti pretenzioso, irrisolto se non raccapricciante tout court, proprio come il Bowie-alano in copertina. Inutile dire che le critiche sono aspre soprattutto in Italia: tanto egocentrismo e tanta attenzione per l’esteriorità sono di certo reazionarie, per non parlare dell’ispirazione tratta dal tomo anti-stalinista 1984 di George Orwell. In realtà Diamond Dogs è album decisivo proprio perché chiude la porta a qualsiasi illusione, anticipa il “no future” del punk e, tre decenni più avanti, la grandiosità venata di inquietudine degli Arcade Fire. Stiamo parlando di glam rock e rock decadente, ma in realtà il biennio 1974-75 si trova già oltre l’apogeo di questo suono. Bowie ha sciolto gli Spiders From Mars, Marc Bolan è in una nuvola di polvere bianca che gli fa perdere di vista l’ispirazione, gli Slade falliscono nel tentativo di fare i seri con In Flame, gli Sweet sono una barzelletta e i Roxy Music ripetono se stessi eccedendo in piacioneria. Proprio dai Roxy si era allontanato nel ’73 il manipolatore di nastri in giacca tigrata Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno, in arte Eno. A inizio ‘74 il primo non-musicista ufficiale del rock pubblica un incredibile album d’esordio, Here Come The Warm Jets, dove sintetizzatori e suoni trattati sono messi al servizio di canzoni pop isteriche oppure evocative oppure ironiche. Altrettanto belli sono i successivi Taking Tiger Mountain (By Strategy) e  Another Green World che delineano  un artista geniale e obliquo come le strategie orientali che ama citare, capace di fondere avanguardia e canzone d’autore come farà una ventina d’anni dopo, con più metodo ma meno brillantezza, il cosiddetto post-rock.

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Contemporaneamente Eno, anzi Brian Eno, ha un ruolo di rilievo in tre album incisi in rapida sequenza da  John Cale: Fear, Slow Dazzle e Helen Of Troy, ovvero la “trilogia Island” o “trilogia della paranoia”; il colto ex Velvet Underground non appare sempre ben centrato artisticamente (lo stesso gli accade in contemporanea nella vita privata), tuttavia mette a fuoco la figura dell’autore furente, incontrollabile e al tempo stesso capace di strazianti guizzi sentimentali (I Keep A Close Watch) che servirà da referente, fra gli altri, a Nick Cave e Mark Lanegan. Ecco dunque che il 1974-75 forgia in terra inglese un mondo sonoro un po’ eccentrico e un po’ sofferente che si traveste o si strazia per dimenticare le disillusioni di una brit-quotidianità fatta di disoccupazione, scioperi, blackout elettrici e bombe nei pub. Non è un caso che Eno e Cale si ritrovino insieme all’icona dell’oscurità Nico e al dandy dell’indolenza Kevin Ayers in un album live paradigmatico di tutto quanto si è appena detto, June 1, 1974.

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Ma c’è un’altra scena inglese che agisce ancor più lontano dai riflettori ed è quella del pub-rock che, dopo una fase iniziale ammiccante al mainstream (Brinsley Schwarz) e a un rock-blues classico (Bees Make Honey) si fa sempre più rancorosa e isolazionista.  Stiamo parlando di uno dei suoni tecnicamente più ‘ambient’ mai ascoltati: sporco, proletario e, al contrario di quanto propugnato da Eno e compagni, del tutto anti-intellettuale. Sul momento lo si giudica banale revival del rock’n’roll elvisiano (dunque ennesimo esempio di revisionismo e normalizzazione secondo la critica italiana), eppure le canzoni di Down By The Jetty dei Dr. Feelgood hanno “un tigre nel motore”, come diceva una pubblicità  popolare all’epoca. La rabbia di nascere con un destino già segnato di benzinai o disadattati dà forma a canzoni urgenti che attingono a blues e r&b americani, ma sono inglesissime nel loro combattivo incedere in bianco e nero.

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Down By The Jetty è, fin dalla copertina, un lavoro epocale e rappresenta il gemello diverso, anzi opposto, di Kimono My House degli Sparks: imparagonabili i contenuti, le modalità, lo stile (il vestito bianco sudicio di Lee Brilleaux vs. l’impeccabile mise Hollywood anni ’40 di Russell Mael), uguale l’espressività debordante. E se si guardano i filmati d’epoca, risulta chiaro come i movimenti da burattino psicotico del chitarrista Wilko Johnson sarebbero stati studiati con attenzione dai new wavers di 4-5 anni dopo. Insieme ai Feelgood tanti altri suonano per due soldi in mezzo al puzzo di sudore e birra dei pub; fra loro Kilburn & High Roads   che fondono vaudeville, jazz e rock’n’roll e hanno in formazione la futura, improbabilissima star sesso, droga e rock’n’roll Ian Dury, oppure gli 101’ers, nati nel 1974 e morti meno di due anni dopo, con tale Joe Strummer alla voce solista. Ma qui ci troviamo già proiettati nel 1976 e dunque all’inizio di tutt’altra storia. Quella che abbiamo raccontato, alla faccia delle opinioni a gettone, è comunque piuttosto bella.

à suivre…

 

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Sparks – This Town Ain’t Big Enough For Both Of Us

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Dr. Feelgood – All Through The City

Questo articolo è apparso, in una diversa stesura, sul n. 714 della rivista Mucchio.

              

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