Ormai trentenne ma dall’aspetto di bambina, Jessica Pratt giunge al traguardo del terzo album. Eppure è ancora difficile incasellare il suo genere musicale. Nonostante la predominanza di voce e chitarra, la cantautrice losangelina non ha niente, o quasi, da spartire con il folk, e anche nel vasto reame del pop ci sta piuttosto stretta. Aggiungiamo, ripetendo un’osservazione fatta per il suo disco del 2016, On Our Own Love Again, che non è per niente facile abituarsi alla sua voce, una voce misteriosa che suona (in sintonia con l’aspetto) infantile, o meglio, senza età, a tratti anche un po’ inquietante. Questi aspetti peculiari sono esaltati dalle tecniche di registrazione sotto forma di un abile gioco di echi e riverberi.
Quiet Signs, primo disco ‘professionale’ di Jessica Pratt
Peraltro, Quiet Signs è il primo disco di Jessica Pratt con una produzione altamente professionale. Nonostante le insolite premesse, durante l’ascolto si crea presto un’assuefazione ipnotica, che si mantiene viva per la breve mezz’ora dell’album. Le canzoni, sempre un po’ scarne, ci portano in una dimensione musicalmente aliena, con suggestioni cinematografiche, magari lynchiane, sempre dietro l’angolo; l’apertura strumentale di Opening Night cita però il grande John Cassavetes.
Tra i titoli che per primi si insinuano nella mente si possono citare l’algida Poly Blue, che cela sentori di bossa; oppure Crossing, quasi psichedelica, con un passo vagamente affine agli Espers di Meg Baird. Continuando nel gioco delle somiglianze, lo scarno scambio tra voce e chitarra di This World Around potrebbe ricordare anche la Tracey Thorn pre-Everything But The Girl. Il vortice di nomi non intacca comunque l’originalità della proposta che merita un ascolto ripetuto.
Una volta messo in loop, Quiet Signs sembra provenire da ogni angolo della casa, e se vi girate di colpo, potete persino intuire una presenza dietro di voi, come in un b-movie, ma di quelli con una buona colonna sonora…
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