Il 4 dicembre di 80 anni fa nasceva Dennis Wilson, l’unico a saper manovrare una tavola da surf in quello straordinario gruppo di ragazzi da spiaggia che cambiò per sempre il volto della musica pop, tra melodie e armonie vocali memorabili, surf e ansia di sperimentazione. Fragile e spericolato, Dennis Wilson attraversò per intero l’epopea Beach Boys, costantemente e pericolosamente tentato dal lato buio della strada, fino a inabissarsi nelle quiete onde al largo di Marina del Ray, nella notte del 28 dicembre 1983. Amicizie molto pericolose ed un unico grande capolavoro, “Pacific Ocean Blue”, uscito nel 1977, che vi invitiamo a riscoprire.

Di questo, di hippies, di Charlie Manson, Tarantino e di altro si parla nel pezzo di Enio Bruschi, nostro collaboratore, saggista un po’ a modo suo e filologo appassionato di musica. L’articolo, insieme a molti altri su rock, pop e dintorni, lo trovate nel suo libro “Innocue cronache musicali di un tempo atroce“, che esce proprio in questi giorni e che presenta una scelta di quanto Enio ha scritto per TomTomrock dal 2020 al 2023.

Enio Bruschi Wilson

 Una tavola da surf nelle onde della notte: per Dennis Wilson, a quarant’anni dalla morte

Dennis Wilson, batterista dei Beach Boys, se n’è andato quarant’anni fa, nella notte del 28 dicembre 1983. La cresta dell’onda non è mai stata il suo destino nella vita. Soggiogato dalla creatività prepotente e assolutista del fratello Brian, si adatta in principio di buon grado a suonare la batteria: perché non sa suonare altro, da bravo portiere della musica, e perché sfiduciato nei propri mezzi creativi. Si sente debole Dennis, davanti a Brian e alla sua genialità debordante, è disposto a molto, se non a tutto: a essere rimpiazzato anche all’ultimo momento da riserve ingaggiate dal fratello, ad esempio. Perché più capaci di lui. Dirà: “Brian Wilson è i Beach Boys. Noi siamo solo i suoi messaggeri. Lui è tutto, noi non siamo niente”. E può bastare, per capire la frustrazione di una vita e di una vocazione artistica.

Dennis è, dei fratelli Wilson, il beach boy fascinoso, muscoloso, l’unico del gruppo a praticare davvero il surf sulle onde del Pacifico. Ma l’infanzia dei tre fratelli Wilson era stata tutt’altro che lieve come la spuma dei frangenti. Dennis era cresciuto, come i fratelli, fra le braccia di una madre alcolista e psicologicamente fragile e fra le umiliazioni di un padre-manager violento e sadico, Murry Wilson. Una volta morto il padre, Dennis regalerà a un’amica il suo occhio di vetro. E questo può bastare a comprendere l’esacerbato groviglio emotivo che fa da sfondo alla famiglia Wilson.

Il mondo musicale di Dennis è lento a definirsi, fatica a prendere forma e resterà in larga misura frammentario. Perché Dennis inizi a battere le ali, lui, aggiuntosi per ultimo (e per ingerenza della madre) alla tribù familiare e d’impresa dei Beach Boys, bisogna aspettare l’8 aprile 1968: è con Little Bird, su testo del poeta Stephen Kalinich, che muove i primi passi il suo percorso di autonomia creativa rispetto alla madrepora collettiva dei fratelli. Brian dirà più tardi: “Little Bird mi mandò fuori di testa tanto era piena di spiritualità. Lui sbocciò tardivamente come compositore. Ebbe una vita dura e spericolata, ma la sua musica era così piena di sensibilità come quella di nessun altro”. Il brano entrerà a far parte, insieme a Be Still, sempre di Kalinich e Dennis, di Friends, album musicalmente modesto e traboccante di confusa spiritualità orientale, che i Beach Boys pubblicheranno in quello stesso 1968. Difficilissimo condividere l’entusiasmo di Brian per questi brani, ma restano il primo, vero banco di prova per il mondo interiore e la creatività di Dennis.

Dennis_Wilson_1966

I Beach Boys sono in quel momento all’apice della loro vena creativa e al tempo stesso sull’orlo dell’abisso. Due anni prima erano saliti alle stelle con Pet Sounds, album destinato a cambiare il volto della musica popolare, che fonde surf, pop e psichedelia, con una perfezione melodica non più eguagliata. Paul McCartney, che ne era rimasto letteralmente folgorato, dichiarò: “Ne ho appena comprato uno ciascuno per i miei figli per la loro istruzione. Credo che nessuno sia musicalmente istruito finché non ha ascoltato quell’album”. Il 1967 era stato invece l’anno della ascesa vertiginosa e della caduta, delle leggendarie e devastanti sessions di Smile, che avevano visto il collasso psichico di Brian e in ultimo l’inabissarsi dell’intero progetto. La montagna avrebbe partorito, in quel caldo ‘67, il mal accolto topolino di Smiley smile, che rimetteva insieme qualche coccio molto brillante di un’impresa disperata e ambiziosa con non poca confusione. Sarà poco meno che un disastro commerciale e perché Smile torni a splendere, tra le mani del solo Brian, si dovrà aspettare il 2004.

Entra in scena Charles Manson

Le strade larghe e dritte, però, non sono fatte per Dennis Wilson. O lo sono soltanto apparentemente se, nell’agosto 1969 Dennis, di passaggio a Malibu, dà, per la seconda volta, un passaggio a Patricia Krenwinkel (che avrebbe partecipato alla strage di Cielo Drive 1055) e a Ella Jo Bailey, che stavano facendo l’autostop. Porta le due ragazze a casa sua a Pacific Palisades, esce e, al ritorno, nelle prime ore del mattino, dopo una seduta di registrazione, trova Charles Manson che lo saluta come niente fosse. Con lui, in casa Wilson, ci sono altre dodici persone, per la maggior parte giovani donne. Si apre così una delle più oscure voragini criminali del secolo scorso. Una personale rielaborazione di un lutto, che è anche il pozzo di cattiva coscienza in cui si specchia un’intera generazione, è al centro di C’era una volta Hollywood, in cui Dennis è interpretato da Brad Pitt. La visione che il regista Tarantino dà di quegli anni, delle comunità hippie californiane, e non soltanto della family di Manson asserragliata nello Spanh Movie ranch, è da incubo. Manson, a sua volta, non è un corpo estraneo, è la scheggia impazzita di quel mondo e di quella generazione, che nella musica vede sì uno strumento di liberazione, ma anche di affermazione e una promessa, non di rado un miraggio, di successo. Per Manson la musica è un’ossessione (a partire, come è tristemente noto, dai Beatles, dal White Album e dalla loro Helter Skelter). Neil Young, che ebbe modo di ascoltarlo suonare, lo definì poi tanto intenso e inquietante da non riuscire ad ascoltarlo e doversene allontanare. C’è un mondo di musicisti e discografici che prima si incuriosisce e si interessa a lui, talora lo adora come un Cristo redentore, ne blandisce il talento musicale, infine lo tradisce, eccitandone l’istinto criminale e omicida. Il Dennis di Brad Pitt è un omaggio molto toccante alla memoria del vero Dennis. Duro, forte, indistruttibile, un supereroe, attraversa la vita ammaccando auto, sconfiggendo Bruce Lee, senza un graffio. Quel che Dennis non fu mai, quel che Dennis forse avrebbe voluto essere. La scena del doppio autostop è un bel pezzo di cinema, la realtà è ben più prosaica, come al solito: le numerose ragazze che stazionarono in casa di Dennis per mesi gli costarono circa 100.000 dollari, spese mediche per la gonorrea incluse, e 21.000 dollari di danni causati alla sua Mercedes.

Dennis era convinto del valore artistico della musica di Manson. Pagò lo studio di registrazione per permettere a Manson di incidere le sue canzoni, e gli presentò i produttori Gregg Jakobson e Terry Melcher, proprietario quest’ultimo di una casa che aveva da poco affittato all’attrice Sharon Tate e al marito Roman Polański. Melcher si dimostrò molto più freddo di Jakobson e avendo questi l’ultima parola sul possibile contratto con la Columbia records fece naufragare le ambizioni di Manson. Dennis volle che i Beach Boys includessero una delle canzoni di Manson nel loro album 20/20, che uscirà nel 1969; originariamente intitolata Cease to Exist, la traccia venne però rielaborata e intitolata Never Learn Not To Love. Manson fu pagato, ma non gli fu riconosciuto alcun credito come compositore. Di fatto, la canzone gli fu sottratta e, ferita terribile al suo ego smisurato, gli fu negato di esistere con dignità di artista. Il pasticcio poi è anche peggiore di quello che si può pensare. Il titolo dato alla canzone dai Beach Boys altro non è che un verso molte volte ripetuto di Cease to Exist, che diventa anche il verso iniziale della versione Beach Boys.

I testi delle due versioni sono poi molto simili, il secondo è di fatto un patchwork del primo, a tratti identico. Per rendere più spinosa la questione, la canzone risulterà attribuita al solo Dennis. Peggio di così non si poteva. Per Manson il tradimento è compiuto e, onestamente, non è facile dargli torto. Manson minacciò di morte Dennis. Van Dyke Parks, al tempo collaboratore dei Beach Boys, ricordò: «Un giorno, Charles Manson mostrò un proiettile a Dennis, e lui gli chiese: “cos’è questo?”. E Manson rispose: “È un proiettile. Ogni volta che lo guardi, voglio che pensi quanto sia bello che i tuoi figli siano ancora sani e salvi”». Dennis si accorse che si era andati troppo oltre. Terrorizzato ma soggiogato dal carisma di Manson, Wilson decise di andarsene lui da casa, senza sfrattare l’amico. Alla fine, stancatosi della cerchia di hippie paranoici che bivaccavano in casa sua, si decise a chiedere al proprio manager di cacciarli. Manson trovò un’altra sistemazione e lasciò come sinistro ricordo un proiettile nella cassetta delle lettere di Dennis. A diversi anni di distanza dalla strage di Cielo Drive 10050, Wilson dichiarò: «Io so perché Manson ha fatto quello che ha fatto. Un giorno lo dirò al mondo. Scriverò un libro e spiegherò il perché. Negli anni le persone hanno sempre voluto sapere cosa è successo, com’era il mio rapporto con Charlie. Eravamo amici. Non ho testimoniato al processo. Non potevo. Ero troppo spaventato».

Nel frattempo, lentamente, le autonome tensioni artistiche di Dennis prendono forma. Inizialmente aveva provato a guadagnare il suo posto al sole nei Beach Boys, impegnandosi a suonare la batteria. Ma non era abbastanza per lui, né per loro, ché lui non fu mai un mago dello strumento e dal 1971, quando si infortunò gravemente a una mano, Ricky Fataar finì con il sostituirlo stabilmente, negli anni dal 1972 al 1974. Durante questo periodo però, anche per via della crisi personale di Brian, Dennis si impone come frontman della band insieme al cugino Mike Love, suonando la tastiera e cantando in qualche pezzo.

Pacific Ocean Blue: Dennis Wilson racconta la fine di un’epoca e di un mondo

La vita per Dennis è, rispetto al maturare della sua tensione creativa, un treno che all’incontrario va. Nei tre anni che fanno seguito al fallimento di Holland, l’abuso di droghe e alcol si aggravava ancor più: la voce di Dennis si deteriora in maniera definitiva, ma al tempo stesso si fa simile a un grande scoglio spezzato, infilato per mille fessure dalle onde del mare. Nel 1974, in concomitanza con il successo della compilation Endless Summer che porta nuovo fiato alla carriera dei Beach Boys, che negli anni Settanta, finita l’estate della musica e del surf, getta solo sporadici semi di luce nel buio anche psichico che attanaglia la band, Dennis torna a occupare stabilmente il suo ruolo di batterista. Tuttavia è a partire dal 1970 che non smette di accarezzare il progetto di un disco solista, che con grande fatica si trascina per anni. Fra la fine del 1976 e la primavera del 1977, Dennis riesce finalmente a registrare la gran parte del materiale di quello che resterà il suo unico lavoro compiuto, Pacific Ocean Blue.

Il mondo musicale di Dennis è lontano dalle sonorità e dallo spirito del tempo in cui esce come il giorno dalla notte. “Never trust a hippie”, gridavano i Sex Pistols, nella furia iconoclasta delle loro performance e ben rappresentavano così lo spirito del tempo. Pacific Ocean Blue è ricco di umori soul e blues, di eco morbide che arrivano del tempo dell’oro del folk rock californiano. Nondimeno suona come il rintocco lugubre di un tempo morto, nel quale residui ormai decomposti di surf si uniscono a splendide intuizioni e a spezzate e divaganti linee melodiche. Pacific Ocean Blue è un frutto musicale spuntato sull’albero dei Beach Boys ma che poi matura in solitudine e che Dennis riesce a staccare dal ramo un attimo prima che marcisca.

Wilson

Ricordando il tempo della realizzazione dell’album, il co-produttore Jakobson disse che il progetto sì concretizzò quando Dennis “riuscì ad accettarsi pienamente come artista. Brian gli aveva mostrato gli accordi al piano, ma più egli diventava abile, più la musica che creava non era meramente derivativa da quella di Brian. Avere un proprio studio di registrazione, aiutò tremendamente. Con un piccolo incoraggiamento, e gli strumenti adatti, Dennis ce la fece”. Pacific Ocean Blue è il primo album solista di un membro dei Beach Boys. Pubblicato nell’agosto 1977, è accolto abbastanza bene, ma passa in sordina, ben altro interessa al pubblico, e al mercato musicale, nel momento in cui l’onda punk wave è al culmine. Il disco è ammirato dal fratello Brian che, stranezze della mente del più geniale dei ragazzi da spiaggia, nel 2008 negò addirittura di essere a conoscenza che Dennis avesse mai pubblicato un album da solista: impossibile era l’equilibrio tra mondi creativi fondamentalmente sempre percepiti, dagli interessati, in forte antagonismo. L’album raggiunse la posizione n. 94 negli Stati Uniti, restando in classifica per 12 settimane e vendendo circa 300.000 copie. Non fu un successo, ma impose la creatività di Dennis come un fatto reale. Pacific Ocean Blu è ricco di grandi canzoni, a cavallo fra soul, blues e le dolcezze di un suono californiano che ormai non esiste più se non nel ricordo, come mood interiore che echeggia nella mente sempre più fragile di Dennis. Un ammasso di morbide macerie sotto il quale covano cumuli di disillusione, storica e personale.

L’album guadagna dall’essere ascoltato tutto di un fiato, come se fosse una suite, un succedersi di movimenti, di frammenti, di tessere di un mosaico che, fascinosi ma incompiuti presi singolarmente, ricomposti e allineati rendono chiaro e ben percepibile il disegno: un lungo, mesto addio a un tempo irripetibile e a una gioventù folle e ammaccata. Tutto è finito disperso, fra amori svaniti, mondi di spiritualità evanescenti come la spuma delle onde, e suoni ormai impalpabili come le risate sulle spiagge californiane. Restano soltanto il senso desolato di smarrimento e solitudine e l’alcol a bruciare tutto, che fanno di Dennis un Fitzgerald che non abbia mai scritto Gatsby ma soltanto Gli Ultimi Fuochi.

Moonshine, River Song, You And I e Pacific Ocean Blue sono il cuore del disco. Blues zoppicante, brezze di rock acido, soul dolorante, qualche tocco leggermente funk su cui aleggia un senso di stanchezza e di congedo dal mondo. La morbida rilassatezza di All Things Must Pass di George Harrison, circola nelle vene, ma è vestita di abbandono non di serena accettazione, inacidita nel dolore, annegata in una depressione cosmica senza più spiragli di salvezza spirituale. Il tempo è passato davvero.

Dennis Wilson non è però tutto qui. Dennis aveva in mente un seguito a Pacific Ocean Blue. Avrebbe dovuto intitolarsi Bambu: ne restano spezzoni e idee melodiche, che ne fanno una cupa, a tratti splendida, tela strappata che vale la pena di ascoltare. Il costante declino fisico, la voce ormai quasi inutilizzabile, l’abuso di sostanze stupefacenti e alcol uniti a una fragilità psichica sempre più marcata e a una vita affettiva costantemente a rotoli non resero possibile il completamento dell’opera, che rimase incompiuta, e tramontò definitivamente con la morte di Dennis. Il 28 dicembre 1983, poco tempo dopo il suo trentanovesimo compleanno, Dennis annegò nei pressi della quieta baia di Marina del Rey, Los Angeles. Ubriaco a bordo dello yacht dell’amico Bill Oster, si gettò in acqua per recuperare un oggetto che diceva di aver perso in mare tre anni prima. L’unico Beach Boys che aveva amato e saputo surfeggiare fini inghiottito non dalle onde in pieno sole, ma dalle placide acque notturne di un porto, che lo risucchiarono, e non resero né il corpo né la scombinata tavola da surf dell’anima di un uomo che stava scendendo a precipizio la cresta dell’onda della vita.

Il 4 gennaio 1984 Dennis Wilson venne sepolto in mare in California dalla guardia costiera, dietro autorizzazione speciale del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Durante la cerimonia funebre venne suonata la canzone Farewell My Friend, altro grande brano, gravido di presagi ma sereno nel suo senso di distacco, di Pacific Ocean Blue.

Manson sopravviverà a lungo a Dennis, terribile apprendista stregone partorito dalla cultura hippie e da un tempo ambiguo, che si sarebbe concluso con un ritorno all’ordine tragico e traumatico. Lie: The Love and Terror Cult è il suo primo album, esce il 6 marzo 1970. Prodotto da Phil Kaufman, il disco venne pubblicato dalla semi-fantasma casa discografica Awareness, già agli onori della cronaca per aver sfornato bootleg dylaniani. Come abbiamo visto, già alla metà del 1968 Manson quasi era riuscito a mettere in piedi il suo album. Dennis lo sosteneva con convinzione e Carl e Brian Wilson avevano coprodotto circa dieci canzoni che egli incise nello studio di registrazione casalingo di Brian. Questi nastri, rimasti inediti, potrebbero coincidere in buona parte con il materiale edito in Lie: The Love and Terror Cult. Mentre Manson era già in stato di fermo disse a Kaufman: “Per favore, fai uscire la mia musica”. Kaufman riferì in seguito che Manson gli telefonava di continuo dalla prigione, anche per cinque giorni alla settimana, poiché era molto “ansioso che la gente potesse ascoltare la sua musica”.

Aveva ucciso e fatto uccidere, pur di pubblicare la sua musica, essere riconosciuto grande come i Beatles e per fare vendetta di un mondo luccicante di denaro e successo che lo aveva illuso e poi scacciato. Dopo Lie: The Love and Terror Cult (1970) vedranno poi la luce le jam sessions del tempo della family, The Family Jams (1997). Più tardi One Mind (2005), nel 2017 San Quentin e postumo Charles Manson (2019). Manson, sprofondato nel suo delirio artistico e criminale, era nel frattempo morto in prigione nel 2017. Non c’è nessuna reale evoluzione nella sua musica, che resta fissata, concettualmente, in maniera psicotica, al tempo della family, delle infinite jam hippie e di una psichedelica di matrice californiana né migliore né peggiore del mainstream del tempo. Allo stesso modo non c’è evoluzione nella mente di Manson, crocifissa in un ossessivo delirio di onnipotenza, umana e creativa. Lungo la propria strada per l’inferno aveva incrociato il destino di Dennis Wilson, il ragazzo delle spiagge e del sole, che avrebbe fatto perdere ogni traccia di sé nella notte delle onde.

 

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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