Miracoli italiani 6 / Alan Sorrenti - Alan Sorrenti

Alan Sorrenti oltre Figli delle stelle

“Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro” cantava Battiato nel 1981.  Non sarà questo l’unico tributo che il siciliano dedicherà all’amato cantante gallese-napoletano e la versione della splendida Le Tue Radici (singolo del 1975), raccolta in Fleurs 3, sarà soltanto il più esplicito. E davvero Alan Sorrenti ancora oggi continua ad essere “quello di Figli delle stelle”, per i più, e forse anche per se stesso; per gli accorti e i preparati, invece, è tutt’al più quello che dopo un esordio sfolgorante perse la testa fra modelle, discoteche, eroina, studi californiani e si vendette alla corte di Mammona.

Miracoli italiani 6 / Alan Sorrenti - Alan Sorrenti

Gli inizi, si sa, sono grani snocciolati in ogni rosario della musica italiana degli anni Settanta: nel 1972 esordisce con Aria e subito si innalza a distanze siderali sopra il panorama sperimentale italiano. Mentre i suoi coetanei si contorcono in un prog rock i cui esiti – non di rado assai ingenui – non eccedono i confini del genere, Sorrenti è già grande, autonomo e compiuto, guarda alla space music dei Gong, al mantra-rock degli Hawkwind, e lancia la sua una voce sopranile, inaudita – e mai più udita – sopra i tetti della sperimentazione estrema fino ai confini del free jazz. I quasi venti minuti della title track sono uno dei vertici della musica italiana di sempre e l’estasi acustica velata di malinconia di Vorrei incontrarti dà un’idea chiara del debito mai saldato di Battiato. Come Un Vecchio Incensiere All’alba Di Un Villaggio Deserto (1973) fa il bis, la traccia omonima è uno dei punti di più ardita spericolatezza musicale di quegli anni e la vocalità di Sorrenti si fa addirittura oracolare.

1974: Alan Sorrenti

La piccola storia, tutt’altro che ignobile, di Alan Sorrenti, da questo punto in poi si perde nel vuoto. Ed è un gran peccato, perché siamo al 1974 ed esce Alan Sorrenti, il suo capolavoro. Con un colpo di dadi, il nostro dichiara chiusa con largo anticipo la stagione della sperimentazione e delle musiche magnifiche e progressive. Davvero non si saprebbe come definire questo album dalle tinte morbide ed estatiche e dai risvolti angosciosi e tetri, punteggiato di testi durissimi, combinato di raffinatezze musicali in stile Robert Wyatt, soul e accenni r&b, nel quale le tonalità autunnali esasperano un senso di perdita e dissoluzione che già parla, a chi può intendere, di un ripiegamento straziato su una storia personale alla deriva.

Sorrenti fa tutto da solo, scrive testi e musica, galassia solitaria stacca già qui il proprio biglietto di addio dalle terre delle forme musicali aperte, da lui sempre molto personalmente abitate, e sulla copertina dalle tinte crepuscolari, che echeggia If I Could Only Remember My Name di Crosby, campeggia con il malinconico sorriso di un Dennis Wilson per il quale non ci sarà più nessun mercoledì da leone.

Dicitencello vuje

Gli arrangiamenti sono raffinati e impeccabili, la produzione perfetta e discreta ed il tempo che, si sa, fugge, non ha corroso neppure un margine di questa anatomia di urbana disperazione. Si resta ancora stupefatti e ammirati davanti alle tinte pastello ed estatiche di Viso d’inverno, unico momento di serenità in un disco dominato da presagi sinistri. Spezza subito il ritmo la stupefacente versione psichedelica di Dicitencello vuje, punteggiata dalle percussioni di Tony Esposito (vero Leitmotiv del disco intero) e dalle chitarre dolci ed acide di Limone e Castella, capo di un filo musicale con la terra d’origine che, fra alti e bassi, non si spezzerà più.

 

Le altre canzoni

Segue Ma tu mi ascolti, una delle gemme più lucenti dell’album, grido sconsolato sorretto da linee di piano delicatissime e dallo scorrere di parole di ghiaccio e paranoia che mascherano appena il tormento della dipendenza. È poi la volta della geniale rielaborazione di residuati progressive, Sulla cima del mondo, confessione di un clown-artista pronto a vendere il suo regno pur di smettere di soffrire, e della sghemba e stralunata canzone d’amore in forma di r&b Poco più piano, dagli stupefacenti arrangiamenti soul-jazz. I cosmic whispers degli albori sono solo un ricordo, Sorrenti non ha mai cantato prima d’ora così bene e non lo farà più in futuro. A chiudere tanta bellezza, lo spleen gelido e paranoide di Microfoni assassini e la malinconia struggente di Incrociando il sole, che dietro una tenue tinta crepuscolare apre le porte ad un buio senza appigli che è la vera dominante di questo album magnifico e ignorato.

Verso L.A.

Potrebbe bastare, ma non basta. Due anni dopo Sorrenti torna sulle scene con Sienteme, it’s time to land e le sue ambizioni sono, ancora una volta, stellari. Consegnata per sempre al passato, sulle note della bellissima, iniziale Alba, la stagione dello sperimentalismo (“sento che sto cambiando”, canta il nostro, ma la sua pelle di serpente è già da tempo attaccata ai rovi) il disco segna l’agognata svolta atlantica. Registrato e mixato in California con la sola eccezione di Sienteme (la si ascolti e si rifletta sulla vena pop di Pino Daniele), suonato da turnisti d’eccezione, Sorrenti si attenta ad essere lo Stevie Wonder italiano e per poco non ci riesce. Il disco è un concentrato di L.A. sound, funk raffinato, con inflessioni pop e soul. Non pochi i momenti da ricordare: dalla tesa Seagull Song al trittico finale Sliding on the Wire, Listen e (soprattutto) Your Love Is Magic, sospeso fra Stevie Wonder, Marvin Gaye e la stilizzata vena dance degli Chic.

Miracoli italiani

Vero è che fra i tanti strumenti che suonano nel disco quello che più fa rumore è lo studio di registrazione e che la produzione cuce un make up luminoso anche su momenti meno ispirati, ma Sorrenti crea, in piena blacksploitation, un ibrido funk, dai colori meno neri, di eleganza e stile invidiabili e con le carte in regola per far ballare anche il più arcigno dei censori.

Come i Bee Gees

Si sa che la strada dell’inferno musicale è lastricata, prima ancora che di buone intenzioni, di convincenti ed ascoltati consiglieri. E copione vuole che la parte di Mefistofele sia destinata ai produttori. Per i Bee Gees fu Arif Mardin, per Sorrenti fu che “A Los Angeles ci fu realmente un incontro di stelle negli studi di Jay Graydon, chitarrista e produttore dell’album. […] era ‘LA Sound’, funkypopsoul, era la crema della musica. E così creammo delle immagini sonore, era l’album Figli delle stelle”.

Il successo inatteso

Andò proprio così e Figli delle stelle è un successo colossale, oltre che la consacrazione internazionale. I limiti dell’album, che è tutt’altro che la spazzatura di cui si vaneggia, sono evidenti in una ispirazione che tende a scemare con qualche scivolone nel banale (Incontro in ascensore e Passione su tutti). Non mancano i momenti pregevoli, dalla title track, che resta una perla insuperata di pop-dance internazionale, alla splendida fulminante rapsodia pianistica di Notte di stelle, fatta per toccare anche i più duri di cuore. Non mancano gli ammicchi tribal-caraibici (Casablanca) e qualche altra bella canzone, come la delicata Donna luna, la asciutta e implorante C’è sempre musica nell’aria e la funky Tu sei un’aquila e vai (la sua Young Americans) rendono ancor oggi godibile questo lussuoso contenitore di suoni liquidi e smaglianti.

L.A. & N.Y.

Tutto perfetto, ma c’è un però. Nel 2014 Sorrenti dichiarerà di essere stato in quegli anni “completamente rapito dalla roba di cui abusavo”. La dipendenza gli prende la mano di pari passo con la facilità del successo: Tu sei l’unica donna per me sbanca al botteghino e il nostro tira fuori dal cilindro ancora un dignitoso disco soul funk con L.A. & N.Y. (1979). Look Out e Love forever sono due solidi r&b con inflessioni funk, splendidamente arrangiati e prodotti, e, tolta la canzoncina milionaria, tutto il resto del catalogo è ben decoroso. Basta un anno però e Di notte, trainato dalla melensa Non so che darei (coprodotta da Graydon e prima nelle classifiche italiane) lo confina nel mondo di carta dei rotocalchi, idolo delle teenagers: la partecipazione all’Eurocontest, il Festivalbar, le mille luci della ribalta televisiva e scandalistica sono soltanto il corrispettivo di un vuoto creativo irrimediabile che farà solo in tempo a dar frutti ancor peggiori, con il successivo Angeli di strada (1983), dove il problema non è più far musica da discoteca, ma soltanto quello di fare brutta musica e basta. Credimi non voglio perderti, singolo trainante dell’album, e quel che segue, sono il suo nadir e il bel Sorrenti che ammicca, iconcina pallida, dalle copertine di “Cioè”, è l’ombra di se stesso.

The Prog Years Box

Nel frattempo va tutto a rotoli, anche la vita. A seguito di un violento litigio con la moglie le forze dell’ordine rinvengono nell’abitazione piccole quantità di eroina. Accuse e controaccuse, il processo e qualche mese di carcere. È il capolinea e Sorrenti scende. Quel che viene dopo ha ben poco a che vedere con la storia della musica popolare: il ritorno alla serenità, il buddismo anche musicale (esito spirituale di diversi esponenti della antica scena sperimentale), compilation, qualche scivolone pop e qualche inedito. Il suo volo magico è finito, ma i suoi begli anni sono racchiusi dal 2018 nel cofanetto (dal titolo un po’ birichino) The Prog Years Box, che ripropone i primi quattro album arricchiti da una raccolta di rarities.

Alan Sorrenti

Oggi che scriviamo Alan Sorrenti è nell’imminenza dei settanta e a noi piace festeggiarlo qui ricordando in chiusura una sua bella prova di onestà intellettuale, quando, in anni recenti, a proposito dei passati anni bui e gloriosi, ebbe a dichiarare: “Spiace dirlo, ma furono i tempi migliori: non a caso Figli delle Stelle trae il suo splendido frutto concettuale dall’eroina”. Ma ancor più, ci piace farlo invitando chi se lo fosse perso ad ascoltare o a procurarsi Alan Sorrenti. Non si è fatto troppo di meglio, in Italia, dopo. E non solo in Italia.

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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