odio l'estate

“Odio l’estate”. Ma perché? Proviamo a capirlo canzone dopo canzone.

Chi ha pane non ha i denti e chi ha i denti non ha pane. Questo raffinato concetto filosofico, di potenza cosmica e leopadiana, si sa, ha mille e mille applicazioni. Oggi, per dire, a giudicare dal freddo e dal gelo, sembra davvero sia arrivato l’inverno. Ed è pieno di gente che rimpiange l’estate. Quando è estate, ti ritrovi intorno pieno di gente che rimpiange l’inverno. E odia l’estate.

C’è però una categoria di persone, parolieri e musicisti in specie, che l’estate la odia sempre, ma soprattutto d’inverno. Per dogma, per scelta, per principio. Se si spulcia un po’ la canzone popolare dei nostri anni Sessanta e dei primi anni Settanta, odiare l’estate sembra sia un dovere, un imperativo categorico. Non ci si fa, non si tengono. Chissà perché poi. E chissà perché, per dire, andando avanti negli anni Settanta la si odia meno, l’estate, o con più pungente ironia, o, almeno, con un po’ più di moderazione (e chi la odia piace sempre meno).

Negli abbronzati anni Ottanta, quasi sempre la si ama, l’estate, e Vamos a La Playa (1983) dei Righeira è un inno e un invito irresistibile al godimento alcyonio, per quanto, va pur detto, poi modulato al ribasso dalla più cauta L’estate sta finendo (1985), dominata, si fa per dire, dai presentimenti di una incipiente maturità che però tarda ad arrivare (e questo doveva già un po’ insospettire, visto che i due Righeira avevano al tempo 25 e 24 anni).

Sarà colpa di Sartre e dell’esistenzialismo, mi viene da pensare. E quindi di una tendenza, recepita così, un po’ alla grossa, dal nostro costume e dalla nostra canzone, per cui diventa à la page far mostra d’esser tristi quando si può essere allegri, meglio ancora se tutti gli altri intorno lo sono, allegri e contenti. Vai a sapere. Fatto sta che gli odiatori dell’estate disseminano tante perle di sudore musicale, non di rado di gran valore, e alcune ci è piaciuto riascoltarle oggi che è inverno e che noi rimpiangiamo l’estate. Inverno che poi ci troveremo a rimpiangere quando sarà estate, va da sé.

Tutto inizia con Bruno Martino

È giusto, col senno di poi, che il decennio lo apra Bruno Martino, con Estate (1960), parole di Bruno Brighetti. Bruno Martino è odiatore antonomastico dell’estate, il capostipite del genere. Non perdona all’estate, in particolare, di aver dato: “Il suo profumo ad ogni fiore / L’estate che ha creato il nostro amore / Per farmi poi morire di dolor”. Quindi ben venga l’inverno, perché così: “Cadranno mille petali di rose / La neve coprirà tutte le cose / E il cuore un po’ di pace troverà”. Cioè, in soldoni, ben venga un periodo di merda per tutti quanti, così io mi sentirò meno solo. Un tantino egoistico ma comprensibile, alla fine. Inizialmente intitolata Odio l’Estate, dopo l’impietosa parodia televisiva di Lelio Luttazzi, che la ribattezza Odio le Statue, il brano si chiamerà semplicemente Estate. Sarà un grande standard jazz internazionale e tale è rimasto. Vale la pena ascoltarla, almeno, nella memorabile ed estesissima lettura (quasi dodici minuti) che nel live milanese del 1984 At Capolinea ne ha dato Chet Baker: si odierà ugualmente l’estate, dopo, e forse di più, ma almeno sarà stato un godimento per la mente.

Sergio Endrigo e Gino Paoli: complesse estati d’autore

Nel 1963 è la volta di Sergio Endrigo, con Era d’estate. La trama, però, si fa più complessa, e il gioco più fine. Estate è pienezza, ma autunno è maturità e consistenza. Non tutto svanisce con l’estate, ma molto si raffredda con l’autunno. È la prova del fuoco: “Era d’autunno e tu eri con me / Era d’autunno poco tempo fa / Ora per ora senza un sorriso / Si spegneva l’estate negli occhi tuoi.”

Nel 1964 tocca a Gino Paoli, con la più famosa canzone italiana di ogni tempo sull’estate, Sapore di sale. Il testo, scontento e montaliano, è tutt’altro che un inno al sole e alle spiagge. L’estate è una scheggia di tempo passato, perduto, un coccio aguzzo che taglia il pensiero: “Sapore di sale / Sapore di mare / Un gusto un po’ amaro / Di cose perdute / Di cose lasciate / Lontano da noi / Dove il mondo è diverso / Diverso da qui”. Ed il “qui” è quello di un tempo fatto di giorni infiniti, che passano pigri. Cosa vuoi dirgli. Insopportabile, ma un fuori classe. 

Ma come e quando si odia l’estate? Il parere di Bruno Martino e dell’autorevole Franco Califano

Nel 1965 ci riprova Bruno Martino. È la volta di E la chiamano estate. Al testo mettono mano Laura Zanin e Franco Califano (altro odiatore sistematico dei giorni caldi, come si vedrà, di livello quasi filosofico). La canta Martino ed è un disastro. La canterà poi Mina, e poi mille altri ancora, e sarà un trionfo.

Qui, però, va detto, ma un po’ sempre, l’estate non è che proprio la si odi, ma è piuttosto un ricordo che duole, uno spillo che buca il cuore e fa star male: “E la chiamano estate / Questa estate senza te / Ma non sanno che vivo / Ricordando sempre te / Il profumo del mare / Non lo sento, non c’è piû / Perché non torni qui / Vicina a me”. Eh sì, perché un elemento costante, nell’infinito variare del tema dell’estate svanita, è proprio questo: che l’estate non la si odia quando è estate, cioè non è un problema di sudore e di stare appiccicati sotto il sole o in pineta, anzi: perché quando c’era l’estate c’era lei, c’era lui, insomma c’era l’amore o qualcosa che gli assomigliava e sudare andava (più che) bene. Il punto è semmai quando l’estate finisce, o quando arriva l’estate dopo, e si ripensa a quella prima perché lei o lui non c’è, un’altra lei o un altro lui non si raccatta nemmeno a morire, e insomma non va proprio benissimo.

La delicata Mare di Umberto Bindi, del 1968, dà voce a questo senso di abbandono inevitabile e ne fa un inno dolcemente disperato di solitudine come destino: “Con questi giorni e questo sole / non posso toglierti dal cuore / e chiedo al mare inutilmente / che ti riporti ancora a me. / L’amore non può perdersi volando / nel vento”.  E invece sì, può, evidentemente. 

Quando poi torna a incombere la quotidianità, si fanno le valige, si parte dal mare per la città, arriva l’autunno, è il disastro. Il cuore della questione è riassunto, con proverbiale schiettezza, nella bellissima Una favola d’estate, ricompresa da Franco Califano in Tutto il resto è noia (1977). È un mosso e disincantato apologo sulla fine degli amori da calura: “Ogni amore nato al mare / È una storia da due lire / Sei convinta pure tu che per bene che ci andrà / Non ci rivedremo più” e via così, a peggiorare nel caso in cui, Dio non voglia, ci si abbia a rivedere. 

Si noti poi, per inciso, che le canzoni in cui si odia l’estate non escono d’estate, ma quasi sempre d’autunno o d’inverno, come invito malinconico a ripensare a quel che poteva essere, non è stato e, ormai è chiaro, non sarà più, e anche come auspicio, poco convinto in verità, che possa andar meglio l’estate dopo. 

Franco Califano intinge almeno altre due volte la penna nel fiele estivo. Lo fa nel 1972, prendendo in mano Une belle histoire di Michel Fugain e Pierre Delanoë. La cantano gli Homo Sapiens in quello stesso anno, la canterà Mina, poi, e anche Fugain; traduce il testo Califano, con rispetto e trepidante malinconia per lo svanire delle favole più fragili, e da allora non c’è chi non ricordi che “La storia di noi due / Era un po’ come una favola / Ma l’estate va / E porta via con sé /Anche il meglio delle favole”.

Ma il capolavoro (vero) di Califano è il brano che dà il nome al suo secondo album L’evidenza dell’autunno (1973). Anche a voler sorvolare sulla bellezza del titolo, degno di Proust, si resta ammirati da come l’estate in questi tre minuti scarsi di trasognamento svapori in un ricordo che scorre sulla pelle ruvida di un pescatore, si confonda al suo monologo davanti alle barche in secca. Per una volta, i conti tornano e il bilancio è in dignitoso pareggio: “Tu sei ritornata alla tua vita / con un’avventura in più vissuta / una storia che presto scorderai / Nella grotta chiara, dove m’ hai voluto / è caduto un sogno ed è annegato / Lenti pescatori scendono in piazzetta per un ‘altra estate non c’è fretta.” Ognuno torna al suo mondo (“strano odore la gente di città”).

Irrompe un malinconico genio: Piero Ciampi

C’è però, va detto, un filone in cui l’estate perde la connotazione leggera della favola d’amore e nel quale non ci si intristisce per posa, ma per davvero, sfiorando non di rado quell’anima popolare che sta al fondo, doloroso, molto doloroso, della grande canzone melodica italiana. E allora non si ride più. Con difficoltà a mala pena si sorride. Nel 1971 Piero Ciampi, il barbone celeste della musica italiana come qualcuno l’ha splendidamente definito, scrive Sporca Estate. E l’estate è il vuoto, la solitudine, la condanna a cercare quel che si è perso con colpa, chi si vorrebbe accanto e non c’è: i figli, lontani e allontanati da una vita randagia: “Figli, vi porterei a cena / Sulle stelle / Ma non ci siete / Ma non ci siete / Ma non ci siete” (commossa e spezzata la versione di Bobo Rondelli nel disco che riproduce lo spettacolo Ciampi Ve lo faccio vedere io del 2022).

Prima, nel 1968, c’era stato Azzurro, di Conte e Pallavicini per Adriano Celentano. Con quell’estate che si cerca tutto l’anno e che poi arriva di botto e delude, portando in dono solo ricordi di un’infanzia triste, solitudine e tedio: “ora mi annoio più di allora / neanche un prete per chiacchierar”. Qui non c’è più l’estate, non c’è nessuna stagione, ma l’inverno dell’anima, un senso di abbandono inconcludente e di sconforto che mai più sono stati resi con tanta forza nella storia della canzone italiana. 

Ma Fred Bongusto? Eccolo!

Non si sta nemmeno a dire che di gente a cui invece l’estate piaceva e piace ce n’era e ce n’è parecchia, anche in parole e in musica, d’estate e d’inverno. Ma qui si eccede il compito e quindi mi fermo. Basti però, per tutti, il mai dimenticato Fred Bongusto, scomparso nel 2019. La ricordo qui, perché resta un crooner di classe insuperata. Non c’entra nulla, me ne rendo conto, ma il medley Vincent / Clair (rispettivamente di Don Mac Lean e di Gilbert O’Sullivan) e la cover di Superstition (di Stevie Wonder) che si trovano nell’album Malizia… un po’… (1974) sono gemme da rispolverare. E poi non ho mai, mai capito perché in Tre settimane da raccontare (del 1974, di Testa e Malgoni) lei va “a piangere in cabina” e, soprattutto, che cosa gli ha detto lui. Si è capito, perché lo confessa, che “ancora non t’ho detto che ti amo”. E allora? Cosa le ha detto? Perché lei piange? Perché lui ha raccontato agli amici, tornando dal mare, i segreti delle loro tre settimane? O è stata lei? Indovinala grillo! Se qualcuno lo sa per certo, me lo dica, per favore. Perché questo è un rompicapo quasi più infernale dell’uso dei pronomi personali in Tanta voglia di lei dei Pooh (chi è lei, alla fine? Si è mai capito?). Non se ne può più di tanta incertezza. E comunque sia, a occhio, se una lezione si può trarre da questa breve e incompleta storia di odiatori dell’estate, meglio innamorarsi d’inverno (se uno deve).

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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