London Calling display celebrates 40 years of The Clash.
Se vi trovate a Londra il Museum of London ospita The Clash: London Calling, una mostra che suggella definitivamente, a 40 anni dall’uscita dell’omonimo doppio album il legame inscindibile fra la città e the only band that matters.

Non potete sbagliare, vi guida, nello spazio antistante il museo, una sequenza di fantastiche foto sul classico brick wall, sempre più raro in questa zona che assomiglia sempre più a Manhattan, seguendo il quale si accede alla sala dove, con la colonna sonora del video di Don Letts a rotazione, inizia il viaggio che ci ha portato qui dalle farewell towns.
Tra passato e presente
Non aspettatevi una retrospettiva occhialuta ma neppure un’operazione ruffiana: si tratta più che altro di un affettuoso omaggio, che assume un significato tanto più forte, in questi giorni di Brexit. Allora il paese cercava di uscire dall’inverno del malcontento affidandosi alla Thatcher, un po’ così come adesso affida a Boris la speranza di ritrovare la sua grandeur sbiadita nel blu europeo.
Da lì parte la mostra, che con foto, memorabilia e banner discreti, ripercorre dal maggio del ’79 il percorso che condurrà i Clash a dar vita a uno dei più bei dischi di tutti i tempi, a quello che doveva “suonare come un goal di finale di coppa a Wembley” secondo Guy Stevens produttore dell’album, uno dei due Phil Spectors nel mondo, come si definiva, morto pochi anni dopo di overdose e a cui sarà dedicato proprio dai Clash Midnight to Stevens.
Le registrazioni di The Clash: London Calling
Di ritorno dal tour americano, senza manager e senza soldi,un po’ lo specchio del paese, i quattro prendono in affitto a Pimlico, i Vanilla studios una sala provedi fatto poco più che un garage, e vi si rinchiudono a elaborare il nuovo materiale.

Ogni giorno di prove inizia con una partita di calcio a cinque, nel campetto di fronte, fino allo sfinimento, per poi passare alla musica, e ai testi , quegli stessi testi che possiamo vedere esposti nella mostra, da Guns of Brixton a Ice age (poi divenuta la title track) e ancora Clampdown, Death or Glory, I’m not down e che essendo degli originali manoscritti, non possono che emozionare.

Dai Vanilla poi i Clash si traferiscono a registrare agli Wessex Sound Studios a Islington, per poi partire per il secondo tour americano, tour che li porterà in giro fino al Palladium di NYC, dove un insofferente ( con l’audience) Simonon, durante l’esecuzione di White Riot, sbatterà il suo basso sul palco fino a spaccarlo.
Una copertina iconica
Fa impressione vedere qui, su un velluto rosso, proprio quel Fender Precision, in due pezzi, e vedere, insieme a tante altre su una stessa parete, anche la foto sfocata di Penny Smith che diventerà l’iconica copertina del doppio album, incorniciata dal lettering di elvisiana origine che , si legge fu letteralmente “ dettato da Dio”.

E poi la Gibson di Mick e la Fender di Joe imbracciate con rabbia nel video di London Calling, le bacchette dell’epoca di Topper, gli abiti da gangster anni ’40 alla Pinkie Brown di Simonon, le creepers bianche di Strummer, , il chiodo, i bozzetti e oltre 150 pezzi mai esposti prima.
London Calling?
Nell’ultimo mercoledì europeo di questa città, guardare questi oggetti, mentre in sottofondo suona senza tregua quell’album che qui viene celebrato dopo 40 anni, ha un effetto un po’ straniante, ma tutt’altro che nostalgico. O almeno così pensavo. Sarà l’aria fredda che soffia dal Tamigi, ma uscendo mi accorgo che ho gli occhi umidi.

The Clash: London Calling è aperta fino al 19 Aprile 2020 al Museum of London, 150 London Wall, metro Barbican – St. Paul. Entrata libera con donazione di 5£