di Giovanni Porta
Finalmente un concerto visto comodamente, senza corse, senza affanni, senza sgomitate, senza corpo a corpo con nessuno. Attesa tranquilla, per modo di dire: aspettavo di sentire quella voce che mi mancava da un po’ e poco mi importava, sinceramente, se la scaletta sarebbe stata la stessa di sempre e non mi sono neanche preoccupato di leggere quello che aveva cantato il giorno prima. Per me, come per molti altri, ogni serata è sempre la prima, è sempre nuova, è sempre una promessa di ritorno la prossima volta.
Alle 21 in punto le luci si spengono e dalla mia settima fila vedo sbucare il cappello, nell’ombra, e si parte con Things Have Changed. Non mi è mai piaciuto cercare spiegazioni nascoste dietro la scelta delle canzoni di apertura o di chiusa; sarà che ognuno sente il peso dei propri cambiamenti, ma questa canzone è come un invito a guardarsi attorno per capire da che parte stia soffiando il vento. E poi arriva She Belongs To Me: Receli costruisce un tappeto di tamburi e sembra una marcia cupa, mentre la voce di Bob è sicura, senza alcuna pausa. La teatralità dei gesti sottolinea le parole e i passi indietro e di lato e poi verso il microfono fanno da contrappunto alla musica.
Non è il caso di dire di ogni canzone: ognuno si sceglierà il proprio diamante e se lo porterà dentro per sempre: io ho scelto Scarlet Town e Long And Wasted Years. La seconda soprattutto, per intensità di esecuzione, per partecipazione emotiva e per il silenzio che ha avvolto tutto il teatro.
Fra le cover, dovendo indicare i punti più alti, direi I’m A Fool To Want You e The Night We Called It A Day.
E poi Love Sick, a chiudere due ore di magia. Lo so, lo direi anche del prossimo concerto come lo dissi nel 1984 a Roma, nel caos acustico del PalaEur…. Ma che ci posso fare?
p.s.: ringrazio le due persone che non si sono presentate e che mi hanno permesso di vedere metà concerto al loro posto. In prima fila. Che Dio vi benedica.