Elli De Mon e il disco della maturità artistica (e dal titolo programmatico): Pagan Blues.
Ecco un’altra che meriterebbe visibilità e successo ben maggiori di quelli che pure si è guadagnata in una pluriennale attività di onewomanband, come lei stessa ama definirsi. La vicentina Elli De Mon – al secolo Elisa De Munari – calca infatti le scene quasi sempre da sola, forte della sua eccezionale abilità di multistrumentista, e anche nei dischi assai raramente si avvale di sporadiche collaborazioni.
Anche questo suo Pagan Blues – pubblicato da Area Pirata Records – è interamente “in solitario” e la vede suonare chitarre (compresa la lap steel), organo, percussioni, sitar e dilruba (sorta di sitar suonato però con l’archetto). Il titolo dice già molto: il blues è sempre stato la stella polare dell’attività – ma forse dovremmo dire della vita – di Elli e ad esso ha recentemente dedicato un disco di “omaggi” e un libro con lo stesso titolo, Countin’ The Blues, commossa rievocazione della vita e dell’attività di alcune blueswomen per le quali questa musica è stata anche e soprattutto strumento di liberazione e di autoaffermazione.
L’ecletticità di Pagan Blues
Nonostante sia una ricercatrice e studiosa di tradizioni popolari – o forse proprio per questo – il suo approccio al blues è tutt’altro che una pedissequa riproposizione dei modelli canonici. Si tratta di un blues certo “rispettato”, ma nondimeno rivisitato, “rimasticato” e ben digerito alla luce di molte influenze. Si parte con The Fall, in cui un esordio rumoristico introduce una ritmica ossessiva che crea come un’atmosfera di perenne sospensione in cui si inseriscono a tratti piccole “esplosioni” vocali. I Can See You sembra volerci dire che il punk ha lasciato qualche traccia nella formazione di Elli – non a caso è anche il brano più breve del disco, meno di due minuti e mezzo – mentre Desert Song ha all’inizio cadenze dolci e sognanti che richiamano certa psichedelia, periodicamente ripresentate nel prosieguo del brano. Catfish Blues si propone come un blues quasi “tradizionale” rivisitato da PJ Harvey. Star si apre con un delizioso arpeggio in fingerpicking che lascia quasi subito la scena alla lap steel per contrappuntarla in sottofondo. Ticking appoggia su una ritmica martellante come un metronomo su cui si innestano altrettanto martellanti riff di chitarra di sapore tra il garage e il post punk che ci hanno ricordato abbastanza da vicino il sound caratteristico dei Not Moving.
La title track esordisce con una solennità che viene mantenuta per tutta la durata del brano, accentuata anche dal mantra del refrain. Siren’s Call rivela in tutta evidenza l’amore dell’autrice e interprete per la musica orientale, nonché la conoscenza della grammatica della medesima. L’uso del sitar, poi, fa sì che ci si raffiguri il Mississippi sfociare nel Gange. Troubled chiude i circa 31 minuti del disco con un blues quasi alla Robert Johnson, tutto giocato sul dialogo tra chitarra e lap steel da un lato e la voce di Elli, che si erge a protagonista pressoché assoluta. Una voce capace di far coesistere la sensualità di toni cupi, talvolta quasi rauchi e comunque “allusivi”, con l’innocenza – magari a volte violata – di un timbro cristallino: coesistenza che a volte si realizza all’interno dello stesso brano, con la prima che permea di sé il canto e l’altra che agisce sullo sfondo in backing: si ascolti a questo proposito Star.
Di bei dischi Elli De Mon ne ha già incisi diversi, sempre mantenendosi – senza mai ripetersi pedissequamente – all’interno di un percorso personale di ammirevole coerenza. Questo però mostra una maturità ormai definitivamente raggiunta e si candida ad essere annoverato tra i migliori dischi italiani dell’anno.
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