Per cimentarsi con Suzanne di Leonard Cohen ci vuole un bel coraggio. O una bella incoscienza. Matthew E. White e Flo Morrissey scelgono di essere coraggiosi e fanno benissimo (checché ne dica qualcuno). Ascoltando la loro versione – dilatata, ipnotica, maestosa, quietamente visionaria – viene spontanea una classica domanda anni ’70: di che cosa si sono fatti questi due?
Si sono fatti di cover. Ed è stata una buona idea. White è un virginiano appassionato di southern soul con due album a proprio nome e una crescente fama come produttore (l’opera prima di Natalie Prass, ad esempio). Morrissey è una inglese che ha esordito un paio d’anni fa in chiave freak folk convincendo solo in parte. La loro prima collaborazione è stata, guarda caso, una cover del classico dark-pop Some Velvet Morning in occasione di una serata-tributo a Lee Hazlewood nel 2015.
Flo Morrissey e Matthew E. White: un matrimonio scritto in cielo. No, in studio
A entrambi, quantomeno al momento, manca qualcosa. Vale a dire una scrittura incisiva. Gentlewoman, Ruby Man risolve il problema ricorrendo alle composizioni altrui. Tutta la prima parte propone cose poco mainstream e schizza fra passato (Roy Ayers) e presente (James Blake, Frank Ocean) unificandoli grazie a un vaporoso ma incisivo, classico ma modernista funky-soul. Vale a dire il marchio di fabbrica, fra Allen Toussaint e D’Angelo, fra la Band e Kendrick Lamar, degli studi Spacebomb, regno sonico del barbuto giovanottone. White è bravo ad architettare anche le parti vocali. Conscio del fatto che né lui né la sua partner artistica sono cantanti memorabili, organizza un piacevole caleidoscopio in cui le due voci s’incontrano e si fondono, si lasciano e si riprendono quasi in continuazione.
Il momento migliore di questa sezione è rappresentato da Looking For You, epica e malinconica, che ha anche il merito di far ripensare al genio musicale di Nino Ferrer, quasi sempre ricordato solo come tipetto buffo del pop anni ’60. Attenzione però anche a The Colour In Anything di James Blake trasformata in morbida ballata soul.
Cover pensate bene e realizzate anche meglio
Una volta messe in chiaro le intenzioni, i nostri devono avere deciso che nella seconda metà del lavoro potevano rischiare di più e passare a titoli più noti. Rivestiti e in parte unificati da un groove avvolgente e mai moscio, arrivano tre pezzi in origine diversissimi fra loro. Si comincia con Grease (sì, quella del film con John Travolta), in versione club intelligente. Poi c’è la Suzanne di cui si è detto. Infine il vero colpo di genio: la Sunday Morning dei Velvet Underground in chiave doo-wop modernista.
Qualche dubbio concettuale lo lascia soltanto la conclusiva Govindam. In origine stava su un disco del Radha Krsna Temple, prodotto nel 1971 dal George Harrison indo-mistico per la Apple. Il pezzo uscì anche come singolo e fu salmodiato da tutti gli hippie inglesi dell’epoca fra cui, forse, i genitori di Morrissey. E’ ovviamente molto psichedelico e all’incenso dell’originale mischia un po’ di polvere da sparo western. C’entra poco con il resto del disco, non fosse che riporta alla domanda di inizio recensione sui supporti non sonori usati dai due musicisti. Supporti di buona qualità, comunque.
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