Sono stati i primi a farci conoscere la musica tamasheq: i Tinariwen tornano con Amadjar.
Più di tre decenni di attività e una fedeltà immutata al loro particolare blues del deserto sahariano e soprattutto al popolo al quale appartengono e al quale sono profondamente legati nella buona e nella cattiva sorte.

Perché la musica dei Tinariwen (dei quali esce il nuovo Amadjar) trae linfa e ispirazione dalla vita quotidiana e dalle complesse e drammatiche vicende politiche del popolo tamasheq, meglio conosciuto col nome, dato loro dai colonialisti, di tuareg. Del resto, oltre che le chitarre, i Nostri, quando costretti dall’oppressione, hanno saputo anche imbracciare i fucili per difendere l’indipendenza e la libertà del loro popolo. E non è che ancora oggi la situazione sia molto migliorata e più sicura; la musica è allora anche strumento per dare voce a un popolo.
Un cast di collaboratori di pregio
Magari qualcuno potrà anche dire che il disco non presenta grandi novità rispetto a quella che i Tinariwen ci hanno dato nel passato. E certo l’elemento di dirompente novità che caratterizzò le prima apparizioni in Occidente della band tamasheq, oggi è in gran parte venuto meno. Nonostante ciò i Tinariwen restano dei grandi creatori di canzoni, narratori di storie affascinanti, capaci di ammaliare col loro blues ipnotico ed energico, che non a caso ha conquistato il favore di musicisti e pubblico occidentali. A testimonianza di ciò ad Amadjar collaborano Warren Ellis, Cass McCombs, Stephan O’Malley, Micah Nelson, figlio di Willie Nelson, con contributi che non stravolgono lo stile della band, ma che lo arricchiscono di coloriture non secondarie.
Il significato di Amadjar
Amadjar: il termine indica il viaggiatore straniero ed esprime il sentimento di sentirsi straniero nella propria stessa terra, di non essere padroni del proprio destino. È stato registrato in presa diretta in una tenda nel deserto mauritano, proprio per cogliere il legame con la natura in una dimensione fuori dal tempo, come ha dichiarato il bassista Ag Leche. I testi parlano dei problemi del loro popolo. La libertà, l’oppressione, l’amore per la propria cultura e per il deserto, il rischio di corruzione portato dall’avidità e dal denaro.
Le composizioni di Amadjar e lo stile dei Tinariwen
Fra i tredici brani segnalerei come esemplificativi dell’album l’iniziale Tenere Maloulat, un blues indolente e dolente, il cui tono malinconico è accentuato dal violino di Ellis. O il mirabile intreccio delle chitarre di Zawal. È presente qui Jeiche Ould Chigal, marito di Noura Mint Seymali, interprete poi del fiero canto di lotta e amore per la propria terra Amalouna.
“Oggi il nostro futuro e la nostra speranza sono un ritorno armato alla nostra patria… Oh terra di uomini, la mia anima è stata catturata dalla tua bellezza con un solo sguardo”. L’acustica Taqkal Tarha, canto contro l’avidità, propone il mandolino di Cass McCombs (presente in altre due belle canzoni) che, intrecciato alle chitarre desert e alle percussioni, crea un accostamento inedito e affascinante. E c’è ancora spazio per la torrida psichedelia di Warhilla, con Ellis e O’Malley. In fondo è un bene che i Tinariwen non tradiscano la loro memorabile storia e il loro affascinante stile.
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