bob dylan basementtapes

bob dylan basementtapes 

di Fausto Meirana e Antonio Vivaldi

L’incarico è piacevole ma impegnativo: affrontare (e ascoltare) i 6 cd che formano la versione definitiva dell’archivio più bootleggato di tutti i tempi, i Basement Tapes di Bob Dylan. A quasi 50 anni dalle registrazioni non è facile confrontarsi con il venticinquenne di allora, chiuso in un ritiro rurale nei West Saugerties un po’ per divertirsi insieme agli amici della Band, un po’ per sfuggire alla celebrità soffocante e naturalmente per riprendersi dal famoso – e presunto – incidente motociclistico. I 138 brani (anche se le molte alternate takes riducono il numero di un ventina) comprendono, come si sa, un po’ di tutto: cover complete o solo accennate, traditional riarrangiati, ma soprattutto definiscono l’intero corpus delle registrazioni, aggiungendo le più sonicamente sfortunate nel sesto disco, definito bonus disc (nemmeno ce lo regalassero…). La tentazione di essere critici con questo tipo di operazione fuori tempo massimo è forte; molti dei brani sono difficili da accettare come compiuti, tuttavia una selezione sbagliata avrebbe magari sacrificato alcune gemme che pian piano si insinuano sottopelle come la Belshazzar di Cash o la Tupelo di John Lee Hooker che spiccano tra le molte cover presenti (si va da Tim Hardin a Curtis Mayfield, da Hank Williams a Ian & Sylvia, da Bobby Bare a Bruce ‘Utah’ Phillips). Quanto ai brani scritti da Dylan, alcuni vanno considerati fra i migliori della sua produzione (Tears Of Rage, per citarne uno soltanto) e, pur nella rozza forma di queste esecuzioni, avrebbero meritato una più tempestiva pubblicazione. A tale proposito ci permettiamo una considerazione ardita: al posto del sunto in due cd (The Basement Tapes – Raw), si poteva provare a ‘costruire’ un album singolo con 10-12 di queste canzoni: il risultato sarebbe stato allo stesso livello di John Wesley Harding, il 33 giri inciso più o meno contemporaneamente da Dylan nel corso di una trasferta a Nashville. Tornando al tomone sestuplo, il risultato complessivo può apparire sia un simpatico zibaldone ricreativo, quasi in contrasto con la compostezza ascetica del già citato John Wesley Harding, sia (ed è questa l’opinione da tempo considerata vincente) un geniale compendio dello scibile roots americano che prende dalle generazione passate per dare a quelle future. D’altronde, come diceva la sua amica Joan, Dylan è sempre stato bravissimo a ‘mantenere le cose nel vago’ e in quel periodo un po’ vaga era anche la sua testa. Detto che il lavoro concettuale e sonico portato avanti da Garth Hudson, tastierista della Band, e dal produttore Jan Haust è ineccepibile e che c’è invece qualcosa da eccepire sul costo del cofanetto + libro fotografico (= strenna natalizia), resta al solito da chiedersi a chi vada imputato il ritardo nella pubblicazione dei nastri, a conferma che, talvolta, anzi spesso, i ‘pirati’ sono più lungimiranti delle case discografiche o dell’artista stesso. Ma alla fine Dylan è Dylan e l’esperienza d’ascolto è affascinante nel suo andamento quasi narrativo. Nei primi due dischi le cover folk, pop e blues (da notare, fatta eccezione per Bells Of Rhymney,  l’asenza di brani ‘politici’) scaldano i muscoli musicali; i dischi 3 e 4 mostrano suoni meravigliosamente fluidi nella loro rilassatezza e mettono in fila tutti i brani orginali migliori, mentre il quinto cd spiega come il demone che induce ‘Zimmy’ a cambiare la struttura dei suoi pezzi più noti (Blowin’ In The Wind, ad esempo) avesse già allora cominciato a visitarlo. La scarsa qualità sonora e la frammemtarietà concettuale del sesto dischetto abbassano di un punto il voto finale che quindi è: 

9/10

 

Per una trattazione brano per brano di The Basement Tapes – Complete vi rimandiamo a questa pagina web:

http://www.bobdylan.com/us/news/basement-tapes-track-track

 

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