Per il compleanno di Françoise Hardy, un ricordo del periodo d’oro della cantante francese

Françoise Hardy compie 79 anni, il 17 gennaio. Figlia non voluta di un padre assente, cresciuta da una madre severa ed ostile, nata sotto la costellazione del Capricorno e sotto le bombe della Parigi occupata, non è oggi una candida, elegante, anziana signora acqua e sapone, carica di storie vissute da raccontare, ma una donna piegata dal dolore e dalla malattia. Dal 2021 si è ritirata definitivamente dalla scena musicale. Il male con il quale combatte da anni l’ha aggredita implacabile prima alla gola per poi travolgerla. Alcuni mesi fa ha chiesto che la si lasci morire con dignità.

Lontani, lontanissimi per lei e per tutti i tempi in cui altissima, ossuta e un po’ goffa, bella controvoglia e impacciata, con suo stesso stupore si imponeva, icona di stile e misura, con Tous les Garçons et Les Filles, ad una generazione di giovani tristi, che si scoprivano turbati dall’amore, dalla solitudine e dai loro cuori infranti. Era il 1962. L’anno successivo Françoise cantava in italiano la sua più celebre canzone e Quelli della Mia Età, il disco più venduto nel nostro paese nel 1963, ne faceva una stella in Italia e di lì a poco in Germania, Inghilterra e in tutta Europa.

Françoise Hardy: uno strano tipo di diva

Saga All Stars: Le Temps De L’Amour (The Singles 1962) ci riporta a quegli anni in cui, diciottenne, un singolo dietro l’altro e, a partire da quel fatato 1962, un album dietro l’altro, Hardy dilagava, senza mai puntare i gomiti, in un mare sempre più ampio di popolarità. Agli antipodi della frenesia vitalistica di Brigitte Bardot, Françoise temeva gli uomini, causa di dolori fin dall’infanzia e per tutta la vita. Diversamente da Claudine Longet non avrebbe mai puntato una pistola contro un ricco maestro di sci, ma si sarebbe limitata ad imbracciare una chitarra e a intonare un tenue canto, soffuso di sempre più scura malinconia, su quel maledetto amore inseguito, non corrisposto, rimpianto e infine svanito e sempre fuggito che tanto l’avrebbe tormentata nella vita.

I formidabili anni Sessanta di Françoise Hardy si consumeranno, un successo dopo l’altro, un disco all’anno dopo l’altro, ma l’eco lontana, e pure ben presente, di un meccanismo inceppato, il disagio di un conto che non torna, l’imbarazzo di una antica inadeguatezza, saranno la nota sempre più tesa – e talvolta, soprattutto nel corso degli anni Settanta, estenuata – della produzione musicale di una giovane che schivava i compagni e le liaison con i coetanei per leggere Queneau e Ionesco (i quali, meno ingenui, ringraziavano pubblicamente). Leggerezza, certo, anche vocale. Leggerezza e, non di rado, consistenza tenue di musica e parole, che sempre più Françoise vorrà scrivere in prima persona. Pennellate lievi, ma mai disgiunte dal rintocco di un male di vivere che, dagli anni Settanta in avanti, Françoise sembra voler stemperare e raffreddare nelle gelide geometrie dei segni astrali, interrogati, scrutati e descritti in numerose pubblicazioni con un’ansia addirittura scientifica.

Il rapporto con l’Italia, il cinema, il mondo rock

A Sanremo 1966 è in coppia con Edoardo Vianello, col quale prima canta Parlami di Te e poi, eliminata, dispensa all’Italia sospirosa finti baci e abbracci impacciati nell’immancabile fotoromanzo di rito. Ci sarà il cinema, poi, pur senza vera propensione e senza durevoli risultati, e questa parigina timida, sempre tormentata dal timore d’esser fuori posto, avrà la ventura di incontrare Bob Dylan, George Harrison e Paul McCartney, Brian Jones e, in uno scontro fortuito, un impressionato Mick Jagger: tutti un po’ incantati dal fascino lieve e ombroso di questa silenziosa e imbarazzata chanteuse della porta accanto. Sempre nel 1966 Françoise canta in francese Il Ragazzo della Via Gluck (La Maison Où J’ai Grandi) che l’aveva profondamente impressionata proprio a Sanremo. Sarà un successo straordinario, in Francia e fuori.

I singoli che tappezzano il 1962 sono foglie leggerissime, appena accartocciate, pop lieve, percorso da fremiti leggeri, giusto sfiorato dal suono di un rock ‘n’ roll d’oltremanica tutto levigato e in cui spuntano ritmi e cori della dominante moda ye-ye. Fra di essi, oltre alla canzone che con Hardy più si identifica, anche la celebre ballata Le Temps de L’Amour, che dà il titolo alla nostra raccolta di singoli e che nel 1963 impazzerà in tutti i juke box del Bel Paese con il tiolo Il Tempo dell’Amore.

Gli album più belli di Françoise Hardy

In questi prolificissimi anni Sessanta, che rischiano di risucchiarci nel mare magnum di una produzione ispirata al battere il ferro di una notorietà improvvisa, certo non difetta la continuità, ma quattro ci paiono i momenti di scarto, i punti cardinali per orientarsi. Il primo album, Françoise Hardy (1962), in cui confluiscono in blocco i singoli di quell’anno di grazia, fotografa il versante più lieve, adolescenziale e leggermente malinconico della ragazza ye-ye. Il successivo Le Premier Bonheur Du Jour (1963), che, per chi scrive, rappresenta il vertice della sua prima produzione: più ritmato, vitale, mosso del precedente; più vario nelle suggestioni musicali e impreziosito dal finale, bellissimo surf tribale On Dit De Lui. Il 1968 poi è l’anno del morbido e ben strutturato, per quanto discontinuo, Comment Te Dire Adieu (1968), che segna la prima collaborazione con Serge Gainsbourg. Gainsbourg riscrive in francese e arrangia da par suo It Hurts To Say Goodbye. La canzone che dà il titolo all’album diventerà poi famosa quanto le sue celebri rime in -ex e quando Hardy la canta in italiano (Il Pretesto) è un nuovo successo. Di Gainsbourg Hardy presenta anche una convincente, per quanto languorosa, versione di L’anamour, ma la vera punta di diamante del disco è la Suzanne di Leonard Cohen, omaggio cullante e assorto al molto amato canadese.

Infine, un vero e proprio gioiello da riscoprire, One-Nine-Seven-Zero. Pubblicato nel 1969, chiude una decade irripetibile e già guarda, fin dal titolo, agli anni Settanta. Cantautoriale, autunnale, dai colori pastello, splendidamente prodotto e arrangiato. Hardy canta tutto in inglese con vibrazioni ed echi vocali che sembrano rubati alla Nico più impastata di sonno e meno di anfetamine. Bellissima la tesa, turbata Song Of Winter, sostenuta dall’eleganza degli archi; ancora superiore alla prima del 1968, l’onirica, spaesata cover di Suzanne di Cohen. Cala con questi toni il sipario sui fragranti anni Sessanta di Françoise Hardy e con loro se ne va anche una larga parte di quella inconfondibile, turbata leggerezza di tocco, mai spensierata, di ragazza un po’ scontenta  e fuori posto nel mondo dei grandi, che crediamo finirà per rappresentare Françoise nell’immaginario del tempo che ha attraversato.

Un auspicio per Françoise

Per chi vuol saperne di più, c’è poi la bellissima autobiografia La Désespoir Des Singes Et Autres Bagatelles (2008), in cui la matassa dell’arte, degli affetti familiari difficili e dolorosi, di un senso mai vinto di inadeguatezza alla vita, si dipanano sotto una penna limpida, dura e impietosa. Il ritratto che ne esce di quella ragazza parigina del 1944 che, per sua fortuna e nostra, non si è mai sentita come tutti i ragazzi e le ragazze della sua età, resta indimenticabile.

A Françoise Hardy, nel giorno dei suoi settantanove anni, più che un augurio l’auspicio che il suo voto dignitoso ed umano sia rispettato ed esaudito e che le sia consentito andarsene, in braccio alle stelle distanti della costellazione del Capricorno che l’ha vista nascere, così come ha vissuto: a schiena dritta.

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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