di Antonio Vivaldi e Marina Montesano
La lungamente sedimentata convinzione che il rock italiano versi in stato tanto comatoso quanto l’economia del paese viene a volte scalfita da situazioni in apparenza ‘minori’, in sostanza felici, ben riuscite a dispetto delle avversità e ricche di quelle che un tempo si chiamavano buone vibrazioni.
A Genova così come in mezzo nord Italia il 27 giugno 2013 si traveste da 27 marzo: pioggia e vento nel tardo pomeriggio provocano ritardi organizzativi e convincono più d’un potenziale spettatore a restare a casa (ma di questo si dirà dopo). E così Fast Animals And Slow Kids sono costretti a salire sul palco con cielo ormai sereno, ma dopo un soundcheck affrettato e davanti a una sessantina di persone appena. Il dover recuperare il ritardo sull’ora d’inizio prevista sembra dare una carica in più al mercuriale cantante Aimone Romizi che trascina i compagni lungo uno scattante resumé del loro recente e apprezzabile album Hýbris. Peccato che i tempi risicati costringano il quartetto perugino a lasciare il palco dopo una notevole versione della già classica A cosa ci serve e una bella rivisitazione di Maria Antonietta, altro pezzo di pregio della band, che tiene la scena con personalità e professionalità, nonostante una certa aria spensierata, e soprattutto nonostante il fatto che il pubblico scarso non debba offrire uno spettacolo esaltante per chi si trova sul palco.
Se FASK si attengono per forza di cosa a quanto detto in un lavoro di pochi mesi orsono, Iori’s Eyes sembrano invece essersi parzialmente staccati dalle sonorità di Double Soul, cd vecchio ormai di oltre un anno. Ascoltati dal vivo con l‘accompagnamento di un batterista, Clod e Sofia Gallozzi mantengono vivi i vecchi amori wave ed Everything But The Girl a cui aggiungono elementi soul e r’n’b’ n sintonia con cose oggi molto attuali come XX e soprattutto The Weeknd. Rispetto a Double Soul, dal vivo Iori’s Eyes sembrano molto più incisivi e Clod esibisce una maggiore disinvoltura nel canto, di qualità davvero pregevole; bello anche il contrappunto della voce di Sofia, sin troppo raro. Il duo è, a quanto pare, alle prese con la composizione dei brani del nuovo disco: speriamo che la produzione sia in grado di esaltare le qualità mostrate sul palco.
Con elegante gessato e taglio di capelli alla Blixa, ma modi più morbidi rispetto al nervoso tedesco, Paolo Benvegnù si dimostra ancora una volta un nome di riferimento della scena musicale italiana. Accompagnato da un batterista efficace e duttile, Benvegnù riesce comunque a dare un saggio della sua avvolgente scrittura d’autore che a tratti ricorda, tanto per fare un nome, John Grant. Il Sentimento Delle Cose e La Schiena sono commoventi come si sapeva, mentre il siparietto finale unplugged mostra il lato ironico del musicista lombardo-fiorentino.
Infine una piccola invettiva localista: ingresso libero, tre bei nomi della musica italiana, un ambiente suggestivo a 20 minuti in autobus dal centro città, un’organizzazione (quella delle Habanero Edizioni) che su Facebook ha dato conto della situazione logistica in tempo reale; persino una ristorazione più che accettabile e tutto questo per un pubblico che, a voler contare anche i bambini che giocavano nel parco, è arrivato a 100 unità scarse. Un po’ di vento (esistono le felpe), la concorrenza di un evento calcistico finto quale la Confederations Cup e Genova risponde nel modo solito: ovvero con la sua storica indifferenza, il suo perenne diffidare di ciò che non si conosce, la sua nonchalance paralizzante. E poi non lamentiamoci se le menti migliori di qualsiasi generazione appena possono scappano.
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