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di Mauro Carosio, Giovanni Ferrari, Marina Montesano

“Yes, yes, yes, it’s the summer festival / The truly detestable summer festival”, cantava Edwyn Collins nel 1994, lamentando la svolta pop-commerciale dei festival rock estivi. Non c’è dubbio che questi eventi siano ormai divenuti vere e proprie mete turistiche con un calendario che parte in primavera e termina a cavallo tra agosto e settembre. In quest’ultima fase si è insinuato nel corso degli ultimi anni anche il Rock en Seine, che ha dalla sua una location molto bella e comoda, il Parco di Saint Cloud alle porte di Parigi, e che nel 2014 può contare su una line-up prestigiosa.

Venerdì 22

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Tocca a Cage The Elephant aprire sul palco principale con un set infuocato che raccoglie il meglio della loro carriera iniziata nel 2005, quando si chiamavano Perfct Confusion. Da allora i ragazzi del Kentucky di strada ne hanno fatta e quest’anno si presentano a Rock en Seine forti del buon successo del loro ultimo album Melophobia, un disco rock diretto, senza orpelli e ben costruito; i vecchi successi come Ain’t No Rest For The Wicked sono anche i più applauditi. Dal vivo, comunque, gli ultimi brani rendono meglio che su disco, il pubblico partecipa in maniera entusiasta e il front man Matthew Schulze non si risparmia, muovendosi come una consumata rockstar. Sul palco Pression Live, le svedesi Tiger Bell ci impressionano molto meno con il loro pop-punk senza troppo carattere; nemmeno la cover di Ça Plane Pour Moi, vecchio hit di Plastic Betrand, smuove più di tanto il pubblico.

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Mentre la pioggia comincia a cadere, siamo di nuovo sotto il Main Stage, troppo grande per Jake Bugg e i tre musicisti che l’accompagnano; per evitare un’eccessiva dispersione, sono infatti raccolti nello spazio di pochi metri; il ragazzo di Nottingham non è certamente uno showman, parla poco o nulla e lascia che sia la musica a farlo. Il repertorio è suddiviso fra primo e secondo album, con una netta prevalenza per i brani più ritmici, in modo da coinvolgere un pubblico evidentemente dispersivo qual è quello di un festival: quindi ecco There’s A Beast And We All Feed It, Two Fingers, Slumville Sunrise e in conclusione Lighting Bolt, passando per una cover di Voodoo Chile, anche se il momento migliore arriva con l’intensa Simple Pleasures. Difficile che un concerto così possa guadagnare nuovi fans a Jake Bugg, che d’altra parte non pare cercarli, ma per chi lo apprezza su disco è una bella occasione per accertarne il talento.

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I Blondie al Rock En Seine

Di corsa verso la seconda scena in ordine di grandezza, dove spesso sono passati alcuni gruppi non giovanissimi ma assai attesi, che hanno graziato il Rock En Seine negli ultimi anni: i Madness e i Roxy Music, per esempio. Quest’anno è la volta di Blondie. Tra il pubblico sorprende il numero di giovanissimi, quasi superiore a quello degli attempati nostalgici qui per celebrare quello che con tutta probabilità sarà una delle ultime occasioni di vedere questa band storica in gran forma. L’attacco con One Way Or Another è formidabile. Il suono compatto e nerboruto. La voce della Harry- che a 69 anni suonati sale in scena in una lunga parrucca bionda, occhiali da sole e una mise spiritosissima – è certo meno fresca di una volta, ma grintosa e quindi soddisfa; persino quando più tardi, per problemi con i livelli audio del microfono, a tratti si faticherà a seguirla.

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Del resto tutto ciò poco importa. Siamo qui al cospetto di una véritable icona, consapevole del suo status, ma fermamente decisa a non prendersi sul serio e- soprattutto- a trasformare questa occasione parigina in un vero e proprio party- per sé, per la band e per il pubblico adorante. La scaletta contiene forse un paio di pezzi de trop tratti dalla loro ultima fatica discografica, ma questi comunque guadagnano parecchio rispetto all’originale in studio, grazie anche alla straordinaria presenza scenica della Harry. E poi, i grandi classici: l’immancabile Heart of Glass, l’immensa Atomic con il suo demenziale-adolescenziale refrain “oooooohhhhh your hair is beautiful, oooooohh tonight…” che fa pieno centro, così come lo fa un ispiratissimo medley di Rapture/(You Gotta) Fight For Your Right (To Party) dei Beastie Boys. Ma forse più coinvolgente ancora è la celebre Call Me, in veste decisamente più rock e più incalzante dell’originale, chiusa da un magistrale solo di chitarra dell’aitante Tommy Kessler che letteralmente incendia il pubblico. Al termine di questi brevissimi 60 minuti, letteralmente volati via in un attimo, consola notare che non siamo gli unici che si allontanano dalla Scéne Grande Cascade ancora canticchiando quel magnifico, demenziale refrain…

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Il momento degli Arctic Monkeys

La giornata si conclude con gli Arctic Monkeys, di ritorno al Rock en Seine dopo due anni e con l’ottimo AM da presentare; difatti molti brani, a partire dall’iniziale Do I Wanna Know fino alla conclusiva R U Mine, sono tratti dall’ultimo disco, ma la setlist non tralascia nulla della loro carriera. Dancing Shoes, I Bet You Look Good On The Dancefloor e una rara, almeno per quest’anno, When The Sun Goes Down, dall’amatissimo esordio; brani che ormai non si fatica a definire classici come Teddy Picker, Fluorescent Adolescent e Crying Lightining, quest’ultima in una bella versione rallentata ma potente; mentre dall’ultimo spiccano Why’d You Only Call Me When You’re High? e le melodiche No.1 Party Anthem e I Wanna Be Yours. Negli ultimi minuti, Josh Homme fa un’improvvisata a lato del palco, in piedi su un amplificatore, per un saluto agli amici e un’anticipazione dell’atteso concerto dei QOTSA. Un’ora e mezzo di concerto per la band rock più completa del momento: le canzoni sono brillanti, l’attitudine da superstar di Alex Turner – in versione parodia di Elvis Presley – e Matt Helders è mediata da una certa dose di umorismo e la band nel suo complesso funziona ormai come una macchina da guerra, forse perfino troppo perfetta. Ma di fronte a trentamila persone è quanto ci si attende.

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Contemporaneamente, il dj danese Trentemøller‘s si conferma come uno dei più influenti della scena elettronica contemporanea. I brani più eseguiti sono quelli dell’ultimo album Lost. La sua esibizione è un party in piena regola animato da musicisti e cantanti di ottimo livello, adeguata a un pubblico che preferisce ballare e sballare, in un’atmosfera forse un po’ troppo “unz-unz” piuttosto che adorare un impomatato Alex Turner e compagni.

Sabato 23

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La seconda giornata è anche quella con il programma meno intenso; così TomTomRock si sofferma distrattamente sui The Ghost Of A Saber Tooth Tiger di Sean Lennon, psichedelici senza troppo costrutto, e sulla francese Émilie Simon in compagnia dell’Orchestre national d’Île-de-France, gradevole ma non molto di più, in attesa dei Portishead sul palco principale.

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Portishead e St. Vincent chiudono la seconda serata

Il loro è un set solido eseguito con tale eleganza (a partire dai video che accompagnano l’esibizione) e concentrazione da creare a tratti uno sgradevole senso di straniamento, complice l’attitudine di una Beth Gibbons spesso di spalle al pubblico. Detto ciò vi sono momenti di estrema intensità: in particolare colpiscono l’eterea Wondering Star e il pesante, ipnotico, implacabile, immenso tour de force di chiusura- We Carry On: entrambi, per chi scrive, fra i momenti più alti di questa edizione di Rock En Seine.

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Sul palco Pression live St. Vincent, giunta quest’anno al quinto album in studio, è una delle rivelazioni più interessanti degli ultimi tempi. Unica erede possibile dei Talking Heads, con qualche spruzzata di Bowie anni ’70, si esibisce in un concerto praticamente perfetto.

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Apre in modo astuto con i due brani più accattivanti dell’ultimo disco: Rattlesnake e Digital Witness per proseguire con Chloe In The Afternoon e Cruel dall’album del 2011 Strange Mercy. Poco pubblico per il momento più moderno se non futuristico del festival. Uno spettacolo fatto di musica, gestualità stralunate e Lei, una fattucchiera contemporanea, che ammalia una platea quantomeno allibita.

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Domenica 24

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L’ultimo giorno è quello che prevede anche il programma più vario sotto il profilo degli stili, nonché il tempo meteorologico più gradevole. Cominciano i Cloud Nothings, trio guidato da Dylan Baldi, con un suono a metà tra post-punk e grunge: ma l’estetica è solo grunge, tipo passeggiata nel bosco, e l’esibizione, pur essendo abbastanza efficace, fa rimpiangere qualche nuance in più che pur si incontra nei loro dischi.

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Tutto il contrario per le quattro Warpaint, meno manierate di quanto non risultino in studio, simpatiche e coinvolgenti, che propongono quaranta minuti di buon livello. La setlist pesca sia dal recente LP omonimo, sia dal precendente The Fool, con una escursione fino all’EP d’esordio. Se Love Is To Die resta la loro canzone più immediata, il funky bianco di Disco/Very ha una migliore riuscita live. Brody Dalle, per contro, suona molto più risaputa con la sua miscela di punk e grunge (le Hole aleggiano come un fantasma); le canzoni attingono sia dalla sua carriera solista, sia dal repertorio dei Distillers, la sua ex-band. Un concerto non sgradevole, ma anche senza troppo da dire perché troppo collaudato e di maniera.

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Janelle Monáe dà la prima scossa alla giornata

Ben altro spettacolo con Janelle Monáe, che si conferma spettacolare tanto quanto al Pukkelpop, proponendo la medesima ed evidentemente rodata setlist. QUEEN ed Electric Lady sono i momenti migliori, ma l’intero show diverte, fa ballare e si rivela come uno dei momenti più coinvolgenti del festival. Sul palco un gruppo di strumentisti e ballerine che ricordano la gloriosa squadra di Amy Winehouse e Janelle che canta e balla per un’ora senza tregua. Il pubblico la segue con entusiasmo e il risultato è ottimo.

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Lana Del Rey mette tutti d’accordo

Tempo di muoversi verso il palco principale dov’è attesa Lana Del Rey. Due brani sono sufficienti a confermare tutto quanto si è letto su di lei in merito a voce, presenza scenica ed espressività. Eppure vi sono momenti, in questo set di 75 minuti, in cui La Del Rey sembra riuscire a coinvolgere anche i più cinici tra il pubblico, che si uniscono a lei con divertito trasporto per il refrain della languida Summertime Sadness e quello di un’incalzante West Coast. Chiude il set National Anthem, a metà della quale La Del Rey scende dal palco e raggiunge i suoi giovanissimi fan in prima fila per lanciarsi insieme a loro in una jam session di selfies, abbracci e slinguazzate che continua per parecchi minuti dopo che la band ha già lasciato il palco e le luci si sono spente. È curioso, ma sembrano questi i momenti in cui l’imperscrutabile diva appare più a suo agio, e che lasciano gli increduli inviati speciali di TomTomRock con la stessa domanda sulle labbra: “Ma secondo te questa c’è o ci fa?”

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Il programma delle ultime ore è davvero serrato; La Roux/Elly Jackson, fresca del nuovissimo Tropical Chancer, con un look molto Bowie 1976-77, è un tuffo nel pop sintetico dei primi anni ’80, richiamato persino dalla luci che colorano il palco. In tal senso la sua musica è da prendere o lasciare: se si accetta questo esercizio di revival, allora non si può mancar di apprezzare brani come Quicksand e In For The Kill, i più applauditi; sebbene verso la fine del concerto il brano ch’è poi anche il migliore dell’ultimo disco, Silent Partner, rappresenti per chi scrive l’highlight dell’esibizione.

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Ilrock granitico dei Queens Of The Stone Age

E pensare che, se gli organizzatori avessero mantenuto la successione prevista inizialmente, i Queens Of The Stone Age si sarebbero dovuti esibire prima di Lana Del Rey: il Rock En Seine 2014 si sarebbe allora concluso in un tripudio di selfies, andando ben oltre le strofe inorridite di Edwyn Collins. Invece sono rinsaviti e hanno lasciato ai QOTSA il posto che meritano. Anche loro veterani del Rock en Seine, sono una band che difficilmente lascia delusi (nonostante ci sia chi ancora rimpiange la presenza scenica di Nick Oliveri), che si preferiscano gli esordi più hard/stoner o il recente, più melodico …Like Clockwork. Da quest’ultimo ci paiono particolarmente belle If I Had A Tail e I Appear Missing, senza dimenticare versioni spaccaossa per Feel Good Hit Of The Summer e Song For The Deaf.

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Conclusione tutt’altro che detestabile, insomma, per un festival dall’atmosfera piacevolmente distesa e con una programmazione ormai alla pari con quella dei grandi, più celebri e più antichi appuntamenti dell’estate rock. Cosa menzionare? per la professionalistà e le canzoni gli Arctic Monkeys, per i picchi d’intensità i Portishead, per il cuore Blondie, per lo spettacolo St. Vincent, per…. l’alterità Lana; ma ognuno avrà i suoi momenti da ricordare.

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