Perchè si parla tanto di Diamond Jubilee? E chi è Cindy Lee?
Diamond Jubilee è uscito a marzo di quest’anno, ma apparirà di nuovo nel prossimo febbraio in nuove e più attraenti vesti. Dunque recensirlo a dicembre può avere un suo perché. Quanto a Cindy Lee è da una dozzina d’anni l’alter ego queer di Patrick Flegel, musicista canadese che con il fratello Matt ha anche fatto parte di un gruppo tutto maschile chiamato Women. Come a dire che per lui la musica diventa un laboratorio creativo anche sulle questioni di gender.
Un successo a prescindere dai formati
Diamond Jubilee è il quarto lavoro di Cindy/Patrick, al momento è scaricabile in versione digitale oppure ascoltabile su Youtube in un video a immagine fissa senza separazione fra una traccia e l’altra. A proposito, le tracce sono 32 e il disco dura due ore, due minuti e 22 secondi. Non sappiamo come siano andati i download, mentre le visualizzazioni hanno sorprendentemente superato il milione. Per tale ragione, e magari anche per il coro internazionale di commenti entusiasti, è ormai prossimo l’arrivo del formato fisico (tre vinili oppure due cd).
C’è del miracoloso in questa storia, intanto perché i lavori precedenti non avevano suscitato uguale interesse, poi perché sdegnare le piattaforme tipo Spotify è oggi un azzardo commerciale adatto ad artisti affermati che non ne hanno troppo bisogno. Per non parlare di una proposta sonora ipertrofica in un’epoca dove l’attenzione vola via al secondo minuto di ascolto (dopo il quale qui ne restano ancora 120), oltreché a fedeltà parecchio bassa nell’incisione.
La (tanta) musica di Diamond Jubilee
La cosa buffa è che a questo punto ci si potrebbe aspettare un disco caleidoscopico e spumeggianteche aggira con la varietà il rischio della monotonia. Invece Diamond Jubilee è, per la maggior parte, malinconico, sommesso, introverso. Si pecepiscono, è vero, diversi influssi sonori, però riprocessati per creare una dimensione trasognata, quasi fossero vaghi ricordi – vissuti o immaginati – più che vere citazioni. In tal senso l’ascolto farebbe bene a evitare di fissarsi su referenti tipo Velvet Undreground, John Grant, Ezra Furman, Low, Yo La Tengo, Foxygen per lasciarsi invece catturare da un flusso di coscienza che è sciabordante nelle melodie, sentimental-straziato nei testi e un po’ disturbato nell’insieme. Un bel contributo in tal senso lo fornisce una voce ‘cangiante’ che non teme il falsetto e nemmeno di giocare, come si diceva, con gli specchi dell’identità sessuale.
Diamond Jubilee è certamente un disco che più di altri necessita di un lavoro di immedesimazione, di una disponibilità all’immersione nelle sue acque non sempre limpide che può esserci come no, anche a seconda dello stato d’animo di chi ascolta. Quindi può risultare struggente oppure melenso, geniale oppure pretenzioso, intrigante oppure noioso. Se una critica va fatta a questo lungo e suggestivo viaggio è la mancanza di qualche davvero memorabile ancoraggio melodico, anche se Stone Faces, Baby Blue (entrambe fra i momenti più mossi) e le straziate Dracula e You Hear me Crying vanno vicine a tale esito. In ogni caso l’album ha fatto molto parlare di sè e, date le sue caratteristiche e dati i mala tempora circostanti, questa è davvero una bella cosa.
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