E così sono trascorsi 15 anni abbondanti da quando si cominciò a parlare di Freak Folk, New Weird America e New Acoustic Music. Fu un piacevole fenomeno di nicchia che associava un umanizzante ritorno alle radici rurali e salutiste alla persistenza di un tipico disagio urbano. Devendra Banhart rappresentò il ragazzo-immagine del ‘movimento’, geniale nella sua polivalenza artistica e fascinoso nell’aspetto nonostante un evidente disinteresse per la palestra. Lo si potrebbe definire un hipster ante-litteram, anche se non è un gran complimento.
Devendra Banhart: una figura-simbolo del neo-folk
Texano di nascita e californiano di residenza (con un transito in Venezuela), Banhart si mostra da subito artista di un certo genio. I suoi surreali e sfuggenti bozzetti acustici richiamano alla mente Syd Barrett e la Incredible String Band e piacciono persino a un personaggio di ben più cupo e possente impatto sonoro quale Michael Gira degli Swans. Il nostro esemplifica anche una classica figura che si afferma giusto a inizio secolo: il musicista-musicofilo, che non uccide padri e nonni sonici, come facevano i punk, anzi rende loro omaggio. Devendra fa addirittura di più, visto che convince la folksinger inglese Vashti Bunyan a ritornare sulle scene dopo 30 di assenza.
Ape In Pink Marble è meno psichedelico rispetto al passato
Sono passati 15 anni, si diceva, da questa tempesta in un bicchiere di orzata e nel frattempo non è che il mondo sonoro banahrtiano si sia evoluto granché. Va anzi aggiunto che gli esperimenti fuori contesto, come il disco ‘sexy’ a nome Megapuss (2008), si sono rivelati velleitari. Ape In Pink Marble si propone come segno di piccolo cambiamento nella continuità. E’ un disco di lontananze nei tempi nei luoghi, venato di malinconia e di un esotismo da cartolina e, come le cartoline, vagamente retrò. Nel corso di 13 succinte canzoni sfilano tropicalismo, disco music finto-stolida, ballate sussurrate e improbabili suggestioni nipponiche.
L’effetto complessivo è paragonabile a una giornata al mare con qualche nube sia nel cielo sia nell’animo e giusto un fondo di noia esistenzialista. La psichedelia simpatica e pasticciona dei primi lavori fa capolino solo nei 10 secondi finali di Goodtime Charlie; altrove viene usata con parsimonia e in funzione solo decorativa. Banhart è un melodista che non pianta spine nei cuori e suona un po’ distaccato sia nella tristezza (Middle Names) che nella serenità (Lucky). Insomma, non è intenso come Elliott Smith, tanto per fare un esempio. Ma forse diciamo questo solo perché invidiosi delle sue molte fidanzate belle e famose.
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