Intervista a Chris Catena’s Rock City Tribe per l’uscita di Truth in Unity.
A dirla tutta l’hard rock non è mai stata la mia musica preferita. Ricordo ancora un concerto heavy metal di tanto tempo fa. Il chitarrista indulgeva in infiniti assoli di chitarra. Tanto che me ne uscii forse con la peggiore battuta della mia vita, sperando di far ridere la ragazza che era venuta con me: “qual è la differenza tra masturbarsi e un assolo di chitarra? Che nel primo caso nessuno ti fa l’applauso”. Scomparve dalla mia vita, e me l’ero meritato.

Ma cerco di non fossilizzarmi sulle mie idee. Non voglio avere pregiudizi su nessun tipo di musica, e a volte capita di essere piacevolmente ricompensati, come nel caso di Chris Catena’s Rock City Tribe. Premetto la mia grande ignoranza su questo genere musicale. Eppure l’ascolto del loro album del 2020 Truth in Unity mi ha sorpreso innanzitutto per l’ampiezza del retaggio culturale del leader Chris Catena. Il sound risente dell’influenza di funk, blues, country e rock sudista. Truth in Unity è stato costruito con sapienza e mestiere. Basti dire che con Chris Catena ha collaborato il chitarrista svedese Janne Stark nella scrittura e nell’esecuzione delle 15 canzoni del cd, e che l’ex Aerosmith Jimmy Crespo vi compare insieme a Blues Saraceno nella track numero 9 Who Knew.
L’intero progetto ha una chiara matrice anni settanta. In Get Ready, impreziosita dal suono di un banjo, ho riconosciuto venature Southern rock tipiche dei Drive-By Truckers…solo per essere platealmente smentito da Chris, che durante la nostra chiacchierata in un bar della periferia romana, mi ha detto di non aver mai sentito nominare i Drive-By Truckers. Continuo a pensare che farebbe bene ad ascoltarli. Spero inoltre di non sbagliarmi nell’individuare alcune affinità tra i Chris Catena’s Rock City Tribe e certe sonorità del chitarrista blues nordirlandese Gary Moore. L’ultimo brano dell’album, Ridin’ The Freebird Highway, dura la bellezza di 11 minuti ed è una delizia per gli amanti della chitarra. Un plauso infine per la voce di Chris, ricca e variegata.
Chris, iniziamo dalla tua voce che ha una notevole estensione ed è persino stata definita “scintillante” da un critico rock del tuo settore. Tuo padre, che è stato un tenore lirico italiano di fama, ha avuto un ruolo significativo nella tua formazione artistica?
Scintillante è un termine che mi piace…mi fa pensare all’albero di Natale che ho appena preparato qui in casa…tutto luci e colori. Diciamo che ho sempre cercato di lavorare sui timbri di voce rendendola adattabile ai differenti generi che ho toccato con le mie interpretazioni nel corso della vita…Papà mi ha sempre sostenuto e non si è mai risentito per il fatto che io avessi deciso di sposare la causa del rock and roll a scapito del suo ramo musicale. Ma non potevo sottomettermi a quel tipo di disciplina fatta di migliaia di sacrifici che trasformano un tenore quasi in un recluso. Mi piace andare nei locali, ascoltare le band, bere una cosa e fare tardi.
Sei ormai nel business della musica da più di trent’anni, e Truth in Unity annovera una lista piuttosto sbalorditiva di nomi prestigiosi che hanno prestato i propri talenti alla creazione del tuo album. Come sei riuscito a reclutarli tutti? Ci sono alcuni aspetti riguardo al loro coinvolgimento che ti piacerebbe menzionare?
Beh, questa non è affatto la mia prima produzione – a dir la verità di progetti “all-star” come questi ne faccio da sempre. Ma questa volta sono andato al di là di me stesso e delle mie aspettative…Conosco ormai da decenni alcuni dei musicisti coinvolti, mentre altri si sono uniti perché godo di una buona reputazione negli Stati Uniti, dove si trova l’etichetta che ha pubblicato il cd. Mi capita di incontrare i musicisti, ci parlo, scambiamo informazioni, beviamo una birra insieme e da lì inizia una collaborazione…Altri che mi apprezzano come persona mi aiutano e mi presentano a loro volta altri artisti. E poi essendo un manager musicale ho il mio know-how e un po’ di esperienza che mi guidano nell’implementazione di buone strategie.
Il messaggio complessivo di Truth in Unity sembra essere che le etichette in fondo non contano più di tanto. La mia impressione è che ti piaccia contaminare differenti stili di musica per creare un’amalgama di sottogeneri hard rock tradizionali in chiave moderna. Quanto ti riesce facile o difficile ottenere questa sinergia in Italia in questo particolare periodo?
Caro Marco, le persone volgari direbbero…ma io non uso parolacce…sono una persona cortese e le evito, ma concettualmente e dal punto di vista musicale non mi sono mai preoccupato della necessità di etichette nel mercato…Ho sempre fatto quel che mi piaceva e volevo fare. Ciascun album da me registrato è nato nel segno della libertà artistica…Quand’ero più giovane ho dovuto sorbirmi questi loschi individui che fingevano di essere talent scouts…facevano promesse e le tradivano per estorcermi denaro e farmi sprecare tempo prezioso con produzioni di scarsa qualità. Mi sono autoprodotto l’album dalla A alla Zeta e poi ho iniziato a promuoverlo mandandolo ai CEO delle etichette discografiche. Grooveyard non è una grande casa discografica ma sono appassionati, hanno una devozione per il rock and roll e per la musica che si basa sulla chitarra. Erano entusiasti del mio album, ne apprezzavano lo stile e le canzoni, così abbiamo trovato un accordo.
Provi un ovvio interesse per le radici ancestrali della musica che adori. Non c’è via d’uscita, una volta che si comincia a scavare non si può non risalire ai bluesmen originali che dagli anni venti in poi crearono i suoni che tuttora caratterizzano la musica rock. E questo inesorabilmente conduce a Robert Johnson e al suo leggendario patto col diavolo presso il fatidico incrocio. Come ti relazioni con tutta quella letteratura che si occupa di questo tipo di mitologia?
L’evoluzione della musica rock mi ha sempre intrigato, dal suo sorgere ai primi anni novanta…Diciamo che ho letto di tutto, saggi, testi, biografie, monografie dedicate a quei musicisti che si sono sacrificati agli dei del rock and roll per lasciare in eredità la musica dei giorni nostri al mondo…dai bluesmen del Delta Robert Johnson, Muddy Waters, Blind Lemon Jefferson o Mississippi John Hurt alle icone belle e dannate come Elvis Presley, Jim Morrison, Brian Jones, Keith Richards, Syd Barret, Jimi Hendrix, Janis Joplin fino a Kurt Cobain…Nella mia musica cerco di dare voce al percorso del rock negli ultimi decenni, se non in una canzone intera almeno in alcuni passaggi per creare reminiscenze o momenti particolari nelle linee melodiche o nel testo. Sono anche un appassionato di letteratura rock, specialmente degli anni cinquanta o sessanta, che a sua volta ha ispirato la beat generation…Da Lawrence Ferlinghetti a Gregory Corso, Jack Kerouac, Allen Ginsberg o William Burroughs. Quando vado a San Francisco visito spesso il caffè Vesuvio, che era il punto d’incontro di questi poeti, e cerco d’immergermi nel loro mondo.
Noto qualcosa. Ogni volta che parli dei Beatles, e di Paul McCartney in particolare, ti brillano gli occhi. Se si potesse viaggiare nel tempo, quanto ti piacerebbe ritornare agli Swinging Sixties?
Come sarebbe bello avere una macchina del tempo per fare un salto quantico nel tempo…per capire come le generazioni di quel periodo, figlie della guerra, affrontarono il cambiamento sociale e politico ma soprattutto come accolsero le novità nei campi dell’arte, della moda, della musica. Mi piacerebbe vedere i Beatles dal vivo all’epoca del Cavern…quando suonavano cover dei bluesmen americani oppure Little Richard, Chuck Berry, Roy Orbinson, Elvis. Come sarebbe bello essere una mosca sul muro per disturbare Paul che si attarda nello studio di Abbey per finire l’arrangiamento di una delle canzoni meno amate come Maxwell’s Silver Hammer.
Né io né te ci droghiamo. Ma, diciamolo, molta della musica che amiamo è stata creata da artisti che hanno abusato di ogni tipo di sostanze mentre scrivevano quelle canzoni. Essere contrari alle droghe e amare la musica che proviene dalle droghe, come spiegheresti questa contraddizione?
Forse perché non avendo vissuto quell’epoca in cui tutto era nuovo, dove tutto era una scoperta e c’era ben poca informazione in giro…non c’erano i social, non c’era internet…concedo loro un’attenuante. Mi chiedo se avessi vissuto in quel periodo e partecipato a certi tour, cos’avrei fatto. Non lo so, così non giudico…al contrario…Li considero vittime sacrificali e un esempio da non seguire come stile di vita. Ma a quel tempo il mondo dell’industria discografica era una macchina da soldi…Si dice che gli stessi manager e le compagnie discografiche e i tour manager offrissero droghe ai musicisti per ottimizzare sul lavoro e in modo che potessero affrontare tour estenuanti senza un attimo di respiro. Il risultato fu del tutto autodistruttivo. La curiosità nel voler conoscere la storia di queste giovani persone è dovuta forse anche a una certa dose di compassione…Un po’ come andare a vedere un film drammatico di cui si conosce già il finale…Ti dispiace e vuoi capirne le cause, il motivo per cui si possa poi arrivare a tutto questo.
Quando ci siamo incontrati mi hai mostrato sul tuo cellulare alcuni tuoi notevoli disegni/dipinti. Stai cercando di emulare Ron Wood ultimamente, e di creare una nuova sorta di iconografia rock?
Sono un artista e, come spesso accade a molti nella mia categoria, scrivo, dipingo, scolpisco così come faccio musica. C’è una certa predisposizione. Facciamo alcuni nomi di famosi pittori rock star? Jim Morrison, Syd Barrett, Grace Slick, Paul McCartney, Bob Dylan, Leonard Cohen per esempio, come pure Ron Wood, Paul Stanley, David Bowie ecc. Ma stiamo parlando dei grandi…io sono un umile pittore che segue l’istinto e vede nell’esplosione di colori una forma di messaggio inconscio. Sarà questo periodo così buio e grigio, sarà l’attuale stato d’animo, ma giocare sulla gamma di sfumature è il manifesto della vibrazione positiva che voglio dare al mondo…positività innanzitutto.
Qui la versione inglese dell’intervista.