Brian Wilson

Brian Wilson, il genio fragile del pop

Scrivere in morte d’un artista epocale come il maggiore dei fratelli Wilson che, con il cugino Mike Love e l’amico Al Jardine, fondarono nell’estate 1961 ad Hawthorne, presso Los Angeles, un gruppo rock chiamato Pendeltones in onore d’un marchio d’abbigliamento, nome presto cambiato in Beach Boys dalla loro casa discografica, la Candix Records, significa scalare una delle sacre vette dell’Himalaya pop. E se Dennis Wilson se n’è andato nel 1983 annegando ubriaco di notte lasciandosi dietro un disco solista meraviglioso e struggente come Pacific Ocean Blue, e Carl, il più giovane, quello che cantava God Only Knows, nel 1998 per un male incurabile, Brian, il genio, era riuscito a invecchiare, anche artisticamente, in maniera sorprendente per uno che, a metà degli anni Settanta, viveva recluso in casa dormendo di giorno, drogandosi e mangiando cibo spazzatura, mentalmente instabile fino a interrompere un concerto di Larry Coryell salendo sul palco per cantare, in accappatoio, Be-Bop-A-Lula.

Dio, o se preferite il diavolo, si nasconde nei dettagli. E Bob Dylan che il 20 giugno 2022, per l’ottantesimo compleanno, gli intona sornione, brevemente, Happy Birthday alla chitarra in un video su Twitter (allora si chiamava ancora così), è un dettaglio più che sufficiente per spiegare la considerazione immensa che Brian Wilson ha ricevuto in vita e riceverà nei secoli dei secoli. Un’altra dimostrazione: a quanti musicisti la Gershwin Estate, che tutela il patrimonio artistico di Ira e George Gershwin, avrebbe permesso di completare due composizioni dello stesso George rimaste incompiute?

Le sperimentazioni dell’Angelo Muto

Ci siamo capiti e non vi sciorinerò cronologicamente dell’ulteriore aneddotica biografica che racconti chi era “il genio vivente del pop” secondo sir George Martin (1926-2016), che pure negli anni Sessanta, quotidianamente, lavorava con i suoi quattro principali e non meno dotati concorrenti. Il genio è tale anche, se non soprattutto, nei fallimenti. Mi piace perciò ricordare Brian Wilson non tanto per i suoi successi e le sue disgrazie esistenziali, ma focalizzando quanto grande sia stato il bastione fantastico sul quale andrà a schiantarsi dopo aver realizzato, nel 1966, l’album Pet Sounds, il migliore di tutti i tempi per il Times e il New Musical Express, nonché Good Vibrations, una canzone fenomenale oggi come allora.

Brian, quell’anno, aveva smesso di fare concerti e si era concentrato sulla composizione mantenendo il controllo artistico dei Beach Boys. La sua idea era alzare ulteriormente l’asticella del valore rispetto a Pet Sounds, liberandoli definitivamente dal felice archetipo dell’orecchiabile musica surf giovanile che ne aveva decretato il successo commerciale. Nei concerti lo sostituì brevemente Glen Campbell (1936-2017), definitivamente Bruce Johnston. Il nuovo progetto, intitolato provvisoriamente Dumb Angel, era un concept album sotto forma d’una suite di canzoni legate musicalmente e ispirate nei testi alla storia americana, vecchia di centonovant’anni, da Plymouth alle Hawaii, ovvero da una costa all’altra del continente. Quella scomposizione e ricomposizione sonora che aveva in mente Brian la incastrarono, a modo loro, i Jefferson Airplane nell’album After Bathing at Baxter’s del novembre ‘67.

A quel tempo Dumb Angel, divenuto Smile (o, se preferite, SMiLE secondo la grafica prescelta), era già stato cassato definitivamente senza neppure lambire quella summer love di cui la California assolata era l’epicentro mondiale e che i Beach Boys della musica surf avevano incubato. Sotto accusa, principalmente da parte di Mike Love, i testi surreali di Van Dyke Parks, da lui definiti “allitterazioni acide”, ma anche le sperimentazioni psichedeliche del cugino geniale. Le nuove canzoni scritte in una stravagante vasca piena di sabbia, che Brian s’era fatto installare a casa per affondarci i piedi quando componeva al pianoforte, erano troppo cerebrali e distanti da quella rappresentazione di bravi ragazzi della borghesia wasp che aveva incantato Ronald Reagan, dal 2 gennaio governatore dello stato.

 

Il Santo Graal del pop

Ex attore bambino cresciuto in Louisiana accanto al Mississippi, Parks si era trasferito in California per dedicarsi alla musica come cantautore, compositore, arrangiatore e paroliere. Brian aveva molto in comune con quel “ragazzo magrolino con un punto di vista unico, e con una predilezione per le anfetamine”, come lo avrebbe definito in una biografia del 1991. Nel febbraio del 1966 i due cominciarono una collaborazione che, tra i fumi della marijuana e dell’hashish alternati alla psicoattività delle anfetamine e dell’acido lisergico, avrebbe originato canzoni notevoli come Heroes and Villains e perfino strabilianti come Surf’s up, la composizione più rappresentativa della “teenage symphony to God”, come Wilson definì a ottobre il progetto agli ospiti d’una cena a casa sua prima di fargli ascoltare dei test pressing ammucchiati sul pavimento della camera da letto.

Smile, criticato dai restanti Beach Boys sconcertati dalla struttura cut-up con canzoni originali alternati a frammenti sonori della cultura popolare americana, guardato con sospetto dalla Capitol Records che aveva acconsentito obtorto collo alle eccentricità wilsoniane dopo il remunerativo successo mondiale di Good Vibrations, naufragò definitivamente a dicembre, trascinandosi però stancamente fino a maggio in sessions delle quali Brian perse progressivamente il controllo. All’inizio non ci si accorse che era tutto finito. Ai primi di dicembre la Capitol Records aveva ricevuto una nota scritta a mano, si ritenne da Brian ma oggi attribuita a Carl Wilson o alla cognata Diane Rovell, di dodici canzoni che parevano la scaletta definitiva. Il mese dopo furono stampate quasi cinquecentomila copertine con la grafica fumettistica elementare, poi ripresa da svariati bootleg e dalle The Smile Sessions, del giovane illustratore Frank Holmes. Materiale promozionale, inclusi jingles radiofonici, cominciarono a essere diffusi in previsione d’una pubblicazione che veniva rimandata di mese in mese. Andato via Van Dyke Parks, sprofondato Wilson nella depressione accentuata dall’abuso di droghe, il disco che doveva essere pubblicato a gennaio fu definitivamente annullato il 6 maggio 1967. “Smile mi stava uccidendo” dirà in seguito Brian che alcune settimane prima, ascoltando Strawberry Fields Forever dei Beatles con cui si sentiva in competizione, aveva commentato: “Ci sono arrivati prima”. Ma lui era da solo con amici e parenti serpenti, senza un George Martin di complemento o un Geoff Emerick (1945-2018) dall’ingegno brillante con cui confrontarsi.

La canzone più orecchiabile del progetto, la menzionata Heroes and Villains, fu registrata da capo e recuperata per il mediocre album Smiley Smile, approntato in tutta fretta per mettere una toppa al disastro. Altre saranno pubblicate, in maniera più o meno discutibile, negli anni e nei dischi successivi. Smile non sarà mai terminato, diventando nel tempo il più grande e leggendario disco perduto nella storia del pop: il “Santo Graal” per Al Jardine. Nel 2004, dopo una faticosa ricostruzione della sua carriera solista, Brian Wilson riprese in mano il suo passato pubblicando, da solista, la sua versione di Smile, in precedenza proposta dal vivo. L’effetto è agrodolce e un po’ sconcertante: pare la strabiliante fuoriserie di un’altra epoca, maestosa ma fuori tempo. Più interessante sarà, nel 2011, il cofanetto The Smile Sessions, ricostruzione filologica delle registrazioni originali, in precedenza proposte in maniera frammentaria da significativi bootleg e parziale da alcune raccolte negli anni Novanta, che rilancerà il mito appassito dei Beach Boys. L’anno dopo i sopravvissuti, riconciliato Brian con Mike Love e risolti i contenziosi tra tutti loro, pubblicheranno il loro ultimo album: That’s Why God Made the Radio.

 

La spiaggia universale dell’infanzia e l’estate eterna dell’innocenza

Quel disco si conclude con una canzone, Summer’s Gone, che Brian scrisse in memoria della madre durante gli ultimi giorni del fratello Carl. A un certo punto canta: “L’estate è finita. /Mi siederò e guarderò le onde. /Ridiamo, piangiamo. /Viviamo e poi moriamo. /E sogneremo il nostro ieri”. È il tentativo impossibile di riacciuffare quell’eterna estate dell’innocenza di cui i ragazzi Wilson furono gli spensierati cantori prima che la fama, lo stress, la cupidigia, le debolezze umane, le cattive compagnie d’una storia fin troppo conosciuta e raccontata, sbiadissero quel senso d’immortalità.

C’è una canzone, in Smile, che riecheggia lo splendore esistenziale nell’ineluttabilità severa della vita che Jack Kerouac definì l’Eternità Dorata. È Surf’s up, una canzone che per me vale Penny Lane, probabilmente la composizione iconica per eccellenza del pop barocco. Il demo ritrovato di Brian che la suona al pianoforte è stato paragonato da Elvis Costello alla scoperta d’una registrazione di Mozart che suona una sua composizione. Il Requiem del geniale austriaco, rimasto incompiuto, fu completato dopo la sua morte dall’allievo e amico Franz Xaver Süssmayr. Surf’s Up, probabilmente la più grande canzone incompiuta del pop, fu completata nel 1971 da Carl Wilson con lo stesso Brian che inizialmente non voleva tornare a lavorare sui vecchi nastri.

Carl sovraincise una nuova parte vocale nella prima parte della canzone. Il secondo movimento lo ricavò da un demo di cinque anni prima dove Brian cantava, aggiungendo delle sovraincisioni tra cui un sintetizzatore Moog. Lo stesso Brian riapparve inaspettato nello studio di registrazione per completare la terza parte insieme a Carl e all’ingegnere del suono Stephen Desper.

Non si sa chi ebbe l’idea di aggiungere come finale il demo di Child is the Father of the Man, anch’essa tratta dalle registrazioni originali di Smile. Il titolo riecheggia un verso del poeta britannico William Wordsworth dalla poesia My Heart Leaps Up del 1802. La giunzione fu riproposta, negli anni Duemila, sia da Brian nella sua versione solista di Smile che in una versione finita della canzone nelle The Smile Sessions in cui ci sono diverse ricostruzioni di Surf’s Up. Tuttavia non è mai stato chiarito, né probabilmente lo sarà mai, se la versione del 1966, qualora fosse stata terminata, avrebbe previsto questo finale. Di tutte quelle che restano, la versione migliore per me rimane quella lunga dove c’è un’introduzione strumentale dai bagliori jazz prima dell’intervento vocale di Brian. È da lì che si comincia a entrare nell’Eternità Dorata.

C’è un momento preciso in cui inizia il mito di Smile: è l’articolo di Jules Siegel nel periodico Cheetah nel 1967. Lì Brian Wilson racconta la fusione sublime della sua musica con il testo di Van Dyke Parks in Surf’s Up: “C’è un uomo a un concerto. Tutto intorno a lui ci sono gli spettatori che interpretano i loro ruoli vestiti con abiti fantasiosi, guardando attraverso il binocolo ma così lontano dal dramma, dalla vita. Dietro il binocolo vedi, disegnati, il pozzo e il pendolo. La musica comincia a prendere il sopravvento. Effetto domino delle colonne in rovina. Imperi, idee, vite, istituzioni: tutto deve cadere rotolando come le tessere del domino. L’uomo comincia a risvegliarsi con la musica. Vede la pretenziosità di ogni cosa. Il music-hall è un arco costoso. Allora anche la musica scompare. Si trasforma in un cigno trombettiere, in ciò che la musica è veramente. Lui dipinge la città e spennella lo sfondo. È fuori dalla sua visione, in viaggio. La realtà è scomparsa. La sta creando come un sogno. Torri nidificate con colombe. L’Europa, molto tempo fa. Le risate diventano forti in Auld Lang Syne. La povera gente, nelle taverne e nelle cantine, cerca di rallegrarsi cantando. Poi ci sono le feste, le bevute, il tentativo di dimenticare le guerre, le battaglie in mare. Mentre sei in porto, o parti o muori. Navi nel porto, in battaglia. Una specie d’impero romano. Un soffocamento nel dolore. Il dolore di quell’uomo e il vuoto della sua vita perché non riesce nemmeno a piangere per la sofferenza del mondo, per la sua sofferenza. E poi, la speranza: sei pronto per il surf! … Vieni forte e unisciti alla primavera. Torna ai bambini, alla spiaggia, all’infanzia. Ho ascoltato la parola di Dio: che cosa meravigliosa è la gioia dell’illuminazione, del vedere Dio. E che cos’è Dio? È una canzone per bambini! E poi c’è la canzone stessa: il canto dei bambini. Il canto dell’universo che sale e scende onda dopo onda, il canto di Dio che ci nasconde l’amore, ma ci permette sempre di ritrovarlo come una madre che canta ai suoi figli. (…) Naturalmente questa è una spiegazione molto intellettuale. Ma forse a volte devi fare una cosa intellettuale. Se non capiscono le parole, capiranno la musica. Perché è lì che si trova veramente: nella musica”.

È soltanto il mio parere che può essere giusto o sbagliato, ma è ascoltando Surf’s Up che potete cercare, e forse ritrovare, Brian Wilson.

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Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

Di Pietro Andrea Annicelli

Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

Un pensiero su “Articolo: Brian Wilson – la sinfonia d’un adolescente a Dio”
  1. La canzone di Brian Wilson e dei Beach Boys che ho amato di più è sempre stata “Don’t Talk (Put Your Head On My Shoulder)”, un incanto orchestrale, un sogno cosmico.

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