anni 80 smiths

Gli anni ’80 in Gran Bretagna.

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Ammettiamolo: gli anni ’80 sono ‘non favolosi’ per default. Anzi molti li considerano la tomba della musica cosiddetta impegnata. Come nella puntata dedicata agli Stati Uniti, qui andiamo alla riscoperta del molto di buono (e anche impegnato) prodotto dalla Gran Bretagna in quel decennio. Inutile dire che ci scusiamo anticipatamente per le inevitabili dimenticanze e omissioni.

Nella seconda parte di quest’articolo si era parlato della provincia come ambiente trainante del rock americano. Discorso in parte simile si può fare per la Gran Bretagna, dove sale alla ribalta la depressa Manchester. E’ da lì che gli Smiths partono per sfidare il synth pop vincente e algido-cafone e restituire dignità a chitarra elettrica e parole intelligenti.

The Smiths icone di un’epoca controversa

Johnny Marr è un manuale umano di stili chitarristici, dal rockabilly al glam al folk di Bert Jansch. Soprattutto sa suonare intorno alle melodie e, cosa ancor più notevole, intorno alle parole del cantante Morrissey. Quanto a ‘Moz’, se il suo ego nevrastenico e himalayano non lo rende un prodigio di simpatia, lo si deve comunque considerare  uno dei maggiori artisti britannici degli ultimi 40 anni. Il nostro è un articolato poeta delle tempeste in un bicchier d’acqua e delle tematiche scabros. E’ un controverso e provocatorio cantore della britannicità, da Oscar Wilde (acc, era irlandese) agli hooligans del calcio. Inoltre è in gran parte a lui – così come ai Bronski Beat di The Age Of Consent – che si deve il merito di avere portato alla ribalta la cosiddetta gay issue. Morrissey è un omosessuale dichiarato e il suo eccellente talento lirico dà un contributo decisivo all’accettazione di quello che sino ad allora era definito, con qualche ripugnanza, amore “diverso”.

La discografia in studio degli Smiths andrebbe ascoltata in toto, anche se The Queen Is Dead (1986) spicca per potenza espressiva, mentre la semi-antologia Hatful Of Hollow è perfetta per cogliere la caleidoscopica grandezza strumentale di Johnny Marr.

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Il rock inglese contro Margaret Thatcher

Gli Smiths ci servono anche per introdurre un elemento chiave, ovvero il rapporto fra musica e politica. E la politica porta un nome: Margaret Thatcher, autentica star in negativo di questa storia. Nel 1984 a Brighton il primo ministro britannico sfugge alle bombe dei terroristi nordirlandesi dell’IRA. Al Melody Maker Morrissey dichiara: “Mi addolora che ne sia uscita viva”. Sempre il cantante: “Tutta la vicenda di Margaret Thatcher è fatta di violenza, oppressione e orrore”.

Alla faccia del decennio frivolo e superficiale per antonomasia, ecco un ricordo di Stephen Morris dei New Order: “Una cosa che oggi trovo sorprendente è quanto fossero politicizzati gli anni ’80. Greenham Common e i picchetti di donne contro i missili Cruise, Rock Against Racism. La definirei una continuazione del punk”.  Ivor Perry degli Easterhouse chiude il cerchio: “Tutti erano in qualche modo politicizzati perché tutti erano accomunati dall’opposizione alla Thatcher”.

Red Wedge

In effetti, a partire dal 1985 il collettivo chiamato Red Wedge (Cuneo Rosso) riunisce musicisti fra loro piuttosto diversi come appunto gli Smiths, il sofisticato Paul Weller del periodo Style Council, Jimmy Somerville dei Communards (fra tutti il  più vicino alla musica sintetica che dominava le classifiche) e il “Woody Guthrie con chitarra elettrica” Billy Bragg (Brewing Up With Billy Bragg – 1984). Si tratta di un’esperienza davvero unica in cui la varietà dei suoni si unisce alla compattezza della matrice politica. Tutto molto bello e molto inutile, visto che nel 1987 Madam Medusa (come la immortalano in una loro canzone gli UB40) vince per la terza volta le elezioni politiche.

L’etica del pop autunnale

Un altro elemento chiave del decennio ‘alternativo’ potrebbe essere il ‘quiet pop’ di una serie di giovani  artisti rigorosamente sbarbati, ben pettinati e vestiti in modo elegante-alternativo. Sono loro a sagomare un suono che conserva l’etica fai-da-te del punk mentre ne rifiuta l’elemento aggressivo puntando invece a una dimensione romantica in abile (e forse inconsapevole) equilibrio fra solarità e malinconia.

A Liverpool i Pale Fountains di Michael Head (Pacific Street – 1984) riscoprono l’eleganza e la ricchezza di sfumature di un compositore fin lì considerato adatto solo a massaie e assicuratori quale Burt Bacharach, mentre a Glasgow gli Orange Juice di Edwyn Collins (You Can’t Hide Your Love Forever – 1984) inventano un funky delicato e ricco di poesia e rivisitano con delicata meraviglia la cultura Sixties.

Una nuova canzone d’autore

In una direzione più cantautoriale si muovono Martin Stephenson e Stephen Duffy. Stephenson scrive canzoni tra folk e pop in perfetto stile da Paul Weller della porta accanto (Gladsome, Humour & Blue – 1988), sfiora la notorietà e poi preferisce evitarne lo stress. Quanto a Duffy, inizia in chiave tutt’altro che alternativa come membro fondatore dei Duran Duran (4), quindi crea, insieme al fratello Nick, i Lilac Time (The Lilac Time – 1987). Il gruppo prende il nome dal verso di una canzone di Nick Drake (all’epoca ancora in attesa del revival di metà anni ’90), ma la voce ricorda un altro eroe del folk autoriale, Al Stewart, mentre le melodie si muovono fra malinconia sospesa, rilassamenti campagnoli e sogni westcoastiani. Anche qui il successo viene solo sfiorato.

In questo ambito in bilico fra pop e delicatezza il nome più noto è quello di Everything But The Girl. Tracey Thorn e Ben Watt partono dalle morbide canzoni folk-wave dei rispettivi inizi come solisti per poi esordire in duo con il pop jazzato, esile eppure coinvolgente di Eden (1984), versione indie di quel tintinnare di calici che aveva in Sade la sua esponente più nota. Gli EBTG continueranno a incidere per una decina d’anni dischi belli e di moderato successo per poi inventare la fusione fra pop d’autore e club culture che li renderà star improbabili e ritrose.

Il mainstream per vie tortuose

Vale ora la pena parlare di alcuni gruppi, tutti provenienti dal nord dell’isola, che sono certamente interessati a centrare  il bersaglio mainstream, ma lo fanno inserendo qualche complicazione nel loro suono. I più simpatici sono gli Housemartins che azzeccano una sequenza di scintillanti singoli all’insegna di un rock chitarristico coinvolgente e immediato e tuttavia permeato di una consapevolezza politica di segno, manco a dirlo, anti-thatcheriano (London 0, Hull 4 -1987) (5).

Meno significativi sono gli esiti commerciali di Aztec Camera e Prefab Sprout. I primi sono guidati dal ragazzo prodigio scozzese Roddy Frame e si fanno subito notare (High Land, Hard Rain – 1983) per un suono chitarristico frizzante e per melodie di ampio respiro caratterizzate da toni jazzati,  incursioni nel flamenco e coretti sixties. Peccato che il resto della carriera sia più ponderoso, solo a tratti significativo e appesantito da scelte improbabili (un disco prodotto da Mark Knopfler, una cover dei Van Halen).

Decisamente meno codificabile è la musica dei Prefab Sprout di Newcastle, che segue linee melodiche complesse e cangianti sostenute da un bel groove ‘interiore’. La si potrebbe definire northern soul (senza riferimenti a quello ballabile di un po’ di anni prima) con affinità costelliane nei passaggi più lenti (Steve McQueen – 1985) e un po’ di stress sottotraccia.

 

 

Un’altra idea di synth-pop: gli Associates

Poiché qui si parla degli anni ’80 alternativi, non si fa menzione di artisti validamente da classifica come Pet Shop Boys, Bronski Beat e Communards, mentre è doveroso citare  un duo in grado di trasfigurare il synth pop che dominava il periodo. Quattro ottave di estensione vocale Billy MacKenzie, grande fantasia polistrumentale Alan Rankine: gli Associates avrebbero potuto e voluto avere grande successo. Erano però troppo snob per la loro casa discografica e troppo intelligenti per il loro bene. Sulk (1982) è realmente lussuoso e lussureggiante come suggerisce la copertina; però è angosciato e sovente claustrofobico, come se il nuovo ‘dark’ fosse la gelida luce artificiale e l’ambiente da design di quell’immagine e non più le stazioni del metrò dei Joy Division.

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Dark e goth

La parola dark introduce un mondo sonoro che prende spunto dalle ombre su cui si era chiuso il decennio precedente. Se la new wave era musica in bianco e nero perfetta per descrivere quella desolazione inglese degli ultimi ‘70 (mucchi di spazzatura nelle strade, tagli alla corrente elettrica, scioperi a catena) che facilitò l’arrivo di Margaret Thatcher – rieccola – al numero 10 di Downing Street, i personaggi di cui parliamo ora sembrano volersi isolare in chiave esistenzialista dal thatcherismo rampante che ben presto rimodella il paese.

Anche se totalmente diverso quanto a suoni, si può parlare di fenomeno affine al riflusso cantautoriale post-Woodstock e post-hippie che negli Stati Uniti portò alla ribalta i ‘confessionali’ James Taylor e Jackson Browne. Qui, anziché nei tramonti sul mare della California e di Cape Cod, ci si perde in un Grande Buio Britannico fra Brighton e Glasgow, fra arricchiti che cenano con bottiglie di costosissimo vino sudafricano (ricordi personali) e disperati che nemmeno si possono permettere la birra temperatura ambiente di un triste pub.

A portare la fiaccola wave nel nuovo decennio, dandole i bagliori luciferini ed epici del goth, sono i Cure di Pornography (1982) e la Siouxsie di A Kiss In The Dreamhouse (1982), mentre ancora più interessante è la trasformazione di Marc Almond che passa dalla dance dei Soft Cell al romanticismo torbido dei dischi come Marc & The Mambas (Torment And Toreros – 1983) e all’universo fassbinderiano, dissipato e sovente disperato  descritto in Mother Fist And Her Five Daughters (1987).

Estremismi sonici

La devianza sonora e comportamentale si fa più evidente nei Coil. Il duo  fosco quartetto nasce all’insegna dell’estremismo industrial (ne fa parte l’ex Throbbing Gristle Peter Christopherson) per evolversi fino allo splendore apocalittico, marziale e disturbante di Horse Rotorvator (1986) (6).

Già dai titoli (Dogs Blood Rising – 1984) i Current 93 di David Tibet non sono da meno quanto a minacciosità, pur  smorzando, si fa per dire, il suono industrial delle origini tramite ossessivi mantra immersi nel folk inglese, in una world music da film di Jacopetti e in testi dove la fanno da padroni una sinistra mistica dei fluidi corporei e irose divinità di svariati pantheon.

Un dream pop in chiave crepuscolare

Non certo solare, ma molto più rassicurante  è il ‘gothic dream pop’ dei gruppi facenti capo all’etichetta 4AD di Ivo Watts-Russell. La fuga dalla brit-realtà di cui si diceva prima è ben evidente nei Cocteau Twins dove il canto abbandona l’inglese per un esperanto di parole-suono. Al tempo stessoe le stratificazioni di chitarre e tastiere creano atmosfere eteree, oniriche e  ambient prima dell’ambient (Treasure – 1984).

Esteticamente escapista può considerarsi anche la ragion d’essere del progetto This Mortal Coil, creato proprio da Watts-Russell con la partecipazione di diversi artisti 4AD. Qui l’idea è quella di accendere, nel buio di una stanza e di un mondo, candeline votive ad alcuni  misconosciuti e infelici artisti degli anni ‘60/’70. I nomi-cardine sono quelli di Tim Buckley, Gene Clark e dei due Big Star Alex Chilton e Chris Bell (It’ll End In Tears – 1984).

Ecco infine i Japan, guidati dall’intellettuale charme  di David Sylvian. Sono già attivi a fine anni ’70 in versione decadente/glam, ma è con il nuovo decennio che definiscono, grazie anche a una competenza strumentale irraggiungibile per il 90% dei colleghi, un suono tanto compiaciuto quanto suadente, tanto stilizzato quanto circolarmente coinvolgente. Tin Drum (1981) è una sorta di  concept album che descrive una Cina molto particolare, vista attraverso un vecchio atlante illustrato o un sogno tecno-maoista.

Un pot-pourri di nomi e idee

Abbiamo dunque cercato di individuare alcune linee di tendenza degli anni ’80 inglesi. Per far questo abbiamo voluto privilegiare gruppi e solisti che durante il decennio esordiscono. Ovviamente andrebbero  citati ancora tantissimi nomi, dischi e suoni. Dal wall of noise dei primi Jesus & Mary Chain (Psychocandy – 1985)  al tribalismo degli irlandesi Virgin Prunes (If I Die, I Die – 1982), Dall’elettronica cantautoriale di Momus (Tender Pervert – 1988)  all’intensità tra l’astratto e lo scultoreo dei Blue Nile (Hats – 1989).

Poi ci sono i ‘veterani’ del decennio o dei decenni precedenti in grado di rinnovarsi e indicare nuove vie. Alcuni esempi: l’ex Teardrop Explodes Julian Cope con il suo pop lisergico (Fried – 1984), Elvis Costello che si scopre crooner (Imperial Bedroom – 1982),   John Cale che incanala le sue paranoie nell’austero e straziante Music For A New Society (1982). Per non parlare di Robert Wyatt e dei suoi singoli militanti.

E non vanno dimenticati coloro che perpetuano la tradizione dell’eccentricità britannica, magari aggiornandola alla modalità lisergica. Sono gli XTC (English Settlement – 1882) e Robyn Hitchcock (Black Snake Diamond Role – 1981).

C’è persino chi ha successo

Un discorso del tutto a parte va fatto per i New Order, che nascono con il dark (sono i Joy Division meno Ian Curtis) e dal dark fuggono inventandosi un suono dance che molto influenzerà il decennio successivo (Power, Corruption And Lies – 1983). Meriterebbero più spazio quantomeno per questa novità sonica, tuttavia i loro dischi, almeno a parere di chi scrive, non sono mai stati memorabili.

Colori di un affresco britannico

Dunque l’affresco che illustra la Gran Bretagna anni ’80 è ampio, bello, emozionante e vario. Tuttavia ha colori più cupi rispetto a quello statunitense tratteggiato nella puntata precedente. C’è un senso di autoisolamento che pare una reazione rispetto alla commercialità elettronico-ballabile della musica da classifica. Ma anche all’arroganza del liberismo di Margaret Thatcher (era un po’ che non la nominavamo). E c’è anche l’irruzione violenta dell’AIDS che uccide un’idea di libertà sessuale totale e  uccide artisti di talento come il regista Derek Jarman.

Il video in cui i Coil interpretano Tainted Love (una hit poco tempo prima per i Soft Cell)  con Marc Almond ‘angelo della morte’, rende bene l’idea dell’angoscia onnicomprensiva legata a una malattia dalla crudeltà tanto mirata.   Per la prima volta dai tempi dei Beatles si registra una perdita di fiducia nella propria capacità di cambiare il mondo con il rock. O, almeno, di veder cambiare il mondo grazie anche al rock. E’ l’inizio di quel ridimensionamento di prospettive che porterà alla musica da cameretta destinata a dominare una certa scena indie a partire dagli anni ’90.

https://youtu.be/UtkGjoRrc9ohttp://

 

1) Uncut 214, marzo 2015 pp. 33-34.

2) Uncut 214, marzo 2015 p. 34.

3) Sarà solo una congiura di palazzo interna al Partito Conservatore a farla uscire di scena come primo ministro nel 1990. La vicenda è impeccabilmente narrata nel romanzo La Famiglia Winshaw di Jonathan Coe. 

4) Stephen Duffy si è sempre mosso fra alt-rock e mainstream. Nel 2005 scriverà e coprodurrà un album di enorme successo quale Intensive Care di Robbie Williams. 

5) Il bassista degli Housemartins Norman Cook diventerà negli anni ’90 un famoso guru della dance con il nome di Fatboy Slim.

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