Gli anni ’80 ‘ufficiali’ e quelli un po’ meno.
Qualche tempo fa abbiamo provato a rivalutare il biennio ufficialmente più sterile del rock, il 1974-75, e l’abbiamo scoperto pieni di boccioli destinati a schiudersi poco dopo, dando vita peraltro a ben strani fiori. Ora ritentiamo l’esperimento in scala più ampia. Ovvero parliamo di un decennio generalmente disprezzato, quando non apertamente odiato, dai fautori della musica ‘vera’: gli anni ’80.
Rivisti sotto forma di macrodati, gli anni ’80 regalano molto acrilico e poco epos. Inoltre non offrono picchi ideologici come il ’68 europeo o il ’77 italiano. Si potrebbe obbiettare che il 1989 fu l’anno della caduta del Muro di Berlino, ma è anche vero che la connotazione vistosamente politico-finanziaria dell’evento non portò con sé grandi ritorni culturali. Elemento ancor più grave, gli Eighties sono visti da molti come semi cattivi del disastro attuale: arrivismo, ossessione per l’immagine, disprezzo per il bene comune. Semi gettati nei locali delle Milano, Londra, New York “da bere” e cresciuti ovunque.
Insomma un disastro, un decennio da cancellare. Ancor di più, verrebbe da dire, se si parla di musica. In realtà, a patto di evitare i luoghi comuni e aver voglia di grattare via un po’ di mascara secco dal volto di un’epoca, il quadro che ne viene fuori è assai più piacevole e articolato. Certo, l’impresa non è di poco conto. Occorre far finta di dimenticare la rivalità di gomma fra Spandau Ballet e Duran Duran, non pensare ai Pet Shop Boys solo come quelli di Paninaro (brano che il loro videomaker – il geniale Derek Jarman – aborriva) e fare le pulci alla bontà in mondovisione di Live Aid.
La musica cotonata degli anni ’80 mainstream
Venendo alla sostanza musicale, occorre prescindere da un suono mainstream quasi sempre tronfio e oggi in alcun casi ridicolo, caratterizzato da synth invasivi, batterie aureolate e da una cotonatura del suono d’insieme percepibile anche in alcuni classici del decennio come The Joshua Tree degli U2 o IV di Peter Gabriel e persino nei dischi di gente legata a sonorità più di radice come Neville Brothers, Los Lobos o Richard Thompson.
Esistono gli anni ’80 non ovvi?
Immortalato questo bel panorama di macerie, si può provare a ricostruire il mondo alternativo di un decennio che, fra i quattro vissuti dal rock nel XX secolo, è considerato il meno affascinante, il meno pericolosamente vissuto. Un decennio che quasi nessuno riesce a definire “mitico”, favoloso” e così via e che manca persino di solenni monumenti funebri. (La scomparsa di Freddie Mercury, il 24 novembre 1991, porta su di sé l’ombra di una malattia, l’AIDS, negata sin quasi all’ultimo giorno.) Questo non indica tuttavia assenza di segnali di vita, piuttosto spiega che gli spigoli più interessanti sono stati piallati, come detto, da una vulgata ormai risaputa.
Electro-pop e Live Aid
Proprio da questa vulgata vale la pena prendere spunto per un tour guidato che parta dai saloni dell’ovvio per poi passare alle stanzette dell’insolito. Si sono citati in precedenza sia il pop elettronico sia Live Aid. Appare indiscutibile che i suoni ridondanti e l’attenzione per i capi d’abbigliamento di Duran Duran, Spandau Ballet e Human League rappresentino una memorabile apologia del disimpegno. Al tempo stesso il doppio concerto del 13 luglio 1985 (un palco a Filadelfia e uno a Londra per raccogliere fondi a favore della popolazione dell’Etiopia, vittima di una terrificante carestia) resta ancor oggi la pietra di paragone per ogni evento caritatevole-colonialista di grandi dimensioni.
Prove tecniche di spettacolarizzazione della bontà
In realtà un legame fra i due mondi c’è. Sia i neo-romantici con la permanente in testa sia i rocker con il cuore in mano mettevano in scena il prologo di una delle grandi recite degli ultimi 20-25 anni. Parliamo della spettacolarizzazione di qualsiasi evento a prescindere dallo scopo o dall’assenza di scopo. Non dimentichiamo che molti spettatori accorsi alla data londinese non erano là per solidarietà con genti sfortunate, quanto per applaudire le superstar Queen. Un gruppo che, peraltro, non brillava per consapevolezza politica, come dimostrano le polemiche suscitate da una loro tournée nel Sudafrica dell’apartheid).
Non a caso è proprio negli anni ’80 che MTV e le immagini dei videoclip acquistano importanza pari, e in alcuni casi superiore, ai suoni. Il discorso vale per i Duran Duran, Madonna e Michael Jackson, ma vale altresì per i ‘bravi ragazzi ’ già citati prima Peter Gabriel e U2.
Womad e il rock politicizzato
Se quanto appena detto pare confermare l’assunto degli anni ’80 effimeri, proprio Gabriel e il quartetto irlandese servono a introdurre qualcosa di un po’ diverso. Fu l’ex Genesis a organizzare nel luglio 1982 la prima edizione del Womad Festival, un laboratorio all’aperto fatto di concerti, danze e arti varie con performer provenienti da tutto il mondo accostati a new-wavers alla moda come Echo And The Bunnymen e terroristi sonici quali i 23 Skidoo. Insomma un Live Aid più serio, strutturato e politicizzato. Gabriel non si limita a organizzare, ma grazie a quell’esperienza incorpora elementi africani nel suo suono e, ispirandosi all’omicidio di un attivista politico sudafricano, scrive la più celebre canzone politica del decennio, Biko.
Terzomondismo e world music
Anche per gli U2, che sono forse il gruppo cardine del decennio in ambito rock, l’attitudine terzomondista quasi militante (Africa, America Latina, in un certo senso l’Irlanda stessa) contribuisce alla sostanza della proposta tanto quanto il muro sonoro creato da Brian Eno e Daniel Lanois.
Dall’altra parte dell’oceano ad interessarsi per la prima volta alle culture ‘altre’ è Paul Simon. Pubblicato nel 1986, il furbo e fluido Graceland associava la sapienza melodica del cantautore newyorkese a voci e ritmi dell’Africa nera. L’album riscosse grande successo e fece conoscere al pubblico rock il cosiddetto township jive (la musica dei ghetti neri del Sudafrica) e le armonie corali dei Ladysmith Black Mambazo.
Per il primo mondo fu la scintilla che accese la fiamma della più sostanziosa – ed effimera – moda intellettual-sonica del periodo, la world music. Se i protagonisti (africani, asiatici, andini, sami e così via) si mostrarono ricchi di idee splendide, la controparte che deteneva i mezzi di produzione venò il tutto di un paternalismo che confinava con il neo-colonialismo. (In questo senso imperdibile è il ritratto di un cultore della world music tutto incenso e vacuità fornito da Nick Hornby in Alta Fedeltà.)
Funge da luminosa eccezione a quanto detto la pioneristica fusione di elettronica, ambient e voci dal mondo architettata da David Byrne e Brian Eno per My Life In The Bush Of Ghosts (1981). Da quest’esperienza Byrne trae nuova linfa creativa e fonde la nevrastenia trendy dei primi Talking Heads con elementi gospel e trance nel trascinante Speaking In Tongues (1983) per poi byrnizzare, rendendola sopportabile, la musica latina nell’esordio solista Rei Momo (1989).
Questi sono gli ’80 che tutti ricordano, magari avendoli letti sulle pagine di un paio di settimanali italiani allora in voga, l’Espresso e Panorama. Nelle prossime puntate, passeremo invece a esaminare cose più strane, più oscure e più belle.