Iggy Pop e gli Stooges 1, 2 e 3
Esce fugacemente nelle sale italiane Gimme Danger, il docufilm che Jim Jarmush ha dedicato a Iggy Pop e agli Stooges. Per l’occasione Tomtomrock traccia un breve ritratto dei primi tre album del gruppo.
Mettersi a scrivere dei “fondamentali del rock” (il termine è odioso ma non ne troviamo di più consoni) e dell’origine di tutto ciò che da qui partirà suscita un certa deferenza. Iggy Pop, gli Stooges, un suono, un mondo…
Iggy, gli Stooges, la vita come suono. E viceversa
Una scura sequenza di tre accordi a scendere, fatali, disperati, l’uomo che si piega al suono e cammina a quattro zampe. Trovate voi la parola per I Wanna Be Your Dog che non suoni già frusta. Impresa difficile, vero? Rispetto all’intellettualismo sadomaso dei quasi coevi Velvet Underground, colpisce nei primi tre lavori degli Stooges l’aderenza tra suono e vissuto, senza fronzoli né rassicuranti distanze. Tutto è vissuto dentro e fuori senza separazione, le viscere, gli urli, il nichilismo il furore erotico, gli schizzi, la polvere che scorre nei solchi, il corpo che si contorce e travolge tutto quello che si para davanti in una folle corsa a cadere.
La potenza esplosiva dei quattro musicisti è palpabile così come il candore, il furore e la bolgia sonora dove si perdono ogni connotazione e riferimento al reale. A ciò non è estranea la generosità con la quale i nostri abusano del rinforzino chimico.
Anche solo sinteticamente, qualche parola sui tre dischi classici del gruppo di Ann Arbor, Michigan, va spesa.
Un esordio fulminante
Prodotto da John Cale per Elektra e pubblicato nel 1969, The Stooges è un’opera prima portentosa. 1969 ti fa muovere anche se non vuoi, ritmo serrato della chitarra , sezione ritmica granitica ingentilita da un vezzoso-efficace handclapping. Iguana-Iggy prende a morsi le parole. Una menzione per We Wil Fall, lunga ipnotica preghiera che raduna oblio, debolezza, tremore nel letto di un hotel in attesa della donna che arriverà a condividere oscuri rituali: ”Don’t forget to come in room 121”. E poi No Fun, un manifesto nichilista declamato con la voce che distorce i finali delle consonanti per ruggire in coda al pezzo sostenuto da un potente fuzz di chitarra.
Fun House: testosterone ed estremismo sonico
Il successivo Fun House (1970) è una viscerale shakerata di blues, hard rock e hook erotici, Iggy e la sua voce promettono perenni tentazioni a spingersi ancora più avanti (o indietro, fate voi) in Loose, riff al testosterone tra sudori e frenesia, TV Eye, potente e carnale, e 1970 con la sua smania senza volto, destinazione, progetto. Siamo travolti da svisate di chitarra intrecciate a urli e inatteso sax free jazz nel brano che dà il titolo al lavoro.
La fosca apoteosi di Raw Power
Chiusura con botto: il il disco preferito per chi scrive. Raw Power (1973. accreditato a Iggy And The Stooges) è un distillato atomico, i brani fremono di potenza viscerale fuori controllo – suoni senza equalizzazione e volumi flat sul rosso – un sound and vision (produceva David Bowie, d’altronde) che tutt’oggi reclama rispetto (*). C’è dentro la più grande ballata rock del decennio (e oltre), Gimme Danger , strepitosa unità di testo e musica. Ma come dimenticare almeno altri due titoli: l’ipnotico riff di Penetration con un’inattesa celesta a chiusura delle battute (un vero colpo di genio) e Search And Destroy che dichiara i suoi compiuti intenti già nel titolo, metal e chitarre acide (il diabolico James Williamson). E tutta la sensualità delle anime disperate.
Conclusione: COMPRATE tutti e tre questi dischi. Poi procuratevi Post Pop Depression di Iggy e stupitevi di come, quasi 50 dopo, l’energia sia ancora la stessa.
(*) Il missaggio voluto da Bowie, inizialmente considerato sciatto, è stato nel tempo rivalutato. Di Raw Power esiste anche un’edizione rimixata dallo stesso Iggy e una versione “legacy” con entrambi i missaggi.