Poco prima della morte (27 ottobre 2013), Lou Reed si era dedicato alla rimasterizzazione dei suoi 16 dischi incisi come solista e pubblicati da RCA e Arista. Oggi questo puntiglioso labour of love verso la propria opera appare sotto forma di lussuoso cofanetto di 17 cd. Indiscutibilmente quasi tutti gli album suonano meglio rispetto alle precedenti edizioni, ma non è questa la cosa davvero importante. The RCA & Arista Albums Collection (Sony Legacy) è soprattutto l’occasione per un viaggio nella storia e nella psiche di una figura chiave del rock. Anzi è un viaggio nel rock tout court. E nel lato selvaggio della vita, ovviamente…
Premessa
Dopo il dissolvimento triste dei Velvet Underground, Lou Reed, parecchio depresso, torna dai genitori con improvvisata occupazione di contabile nell’azienda di famiglia. Ma la fama che ormai si è stretta intorno alla rivoluzione sonica dei VU rende fortunatamente impossibile conciliare un’esistenza ordinaria con la chiamata e la vocazione del talento vero. Rieccolo dunque sulle scene con il primo disco a suo nome.
Lou Reed – maggio 1972
La copertina presagisce una qualche rinascita dal piccolo passo. Vicino all‘uovo Fabergè c’è infatti un uccellino con lo sguardo rivolto in basso. Il disco è scollato, le canzoni buttate lì perché il nostro è perduto e si sente. Addirittura chiama in sala d’incisione due progster come Rick Wakeman e Steve Howe. Ci sono brani come I Can’t Stand It, tirata a dovere, la voce fessurata e graffiante dei tempi VU e alcuni momenti liberati da buone melodie, ma anche tante ballate molli. Da ricordare Lisa Says, Wild Child (che anticipa gli sviluppi sonori di Transformer) e Ride Into The Sun, una dichiarazione di intenti dal sapore depressivo pure un po’ melenso. Ma, dicevamo, un passo alla volta.
Transformer – novembre 1972
Poi arriva in aiuto il mecenate David Bowie che, già folgorato dai Velvet e sedotto dal crudele candore di questo giovane nevrastenico, assume il ruolo di produttore e arrangiatore in una storica collaborazione con Mick Ronson ai Trident Studios di Londra. Mette insieme un manipolo di rockers – Ronson per primo alla chitarra – e confeziona un suono lucido e anfetaminico che certo Bowie si tira dietro come personale cifra sonora via Ziggy Stardust.
Diciamolo subito, qui esistono al massimo un paio di brani mediocri. Troviamo invece capolavori assoluti come Perfect Day, il vitalizio a sei zeri (di altissima qualità lirica e melodica, peraltro), Walk On The Wild Side, Vicious, Satellite Of Love, Hanging Around. Insomma, non si butta nulla. Già evidente la capacità di Reed di descrivere con vividezza e partecipazione la vita della strada, la malagrazia ironica dei perdenti – la sua galleria di personaggi preferiti, che verrà dispiegata con maggiore lirismo di lì a poco. E come dimenticare l’iconica copertina…
Berlin – luglio 1973
Considerato giustamente il primo capolavoro di Reed (il secondo arriverà cinque anni più tardi), è un concept album incentrato su una coppia di emarginati nella Berlino inizio anni ‘70 tra sogni, tradimenti e stupefacenti. Sino all’inevitabile dramma che si consuma nella stanza dove i figli -strappati alla donna incapace di governare i propri eccessi – sono stati concepiti in un passato felice. Nulla in questo album ricorda la leggerezza che fece la fortuna di Transformer.
Sin dalla prima traccia si fanno strada- quasi indistinto nel vociare sguaiato di una festa – il disfacimento e la strana poesia di una coppia alla deriva. Pure Reed non se la passa bene, viene portato alle sessioni praticamente a braccia. Eppure produce un album lucido e straordinario, senza compromessi che i discografici e alcuni fan dell’happy glam non gli perdoneranno per circa trenta anni. Un disco che non può mancare in una libreria musicale come si deve. I brani? Proprio tutti.
Rock N Roll Animal – febbraio 1974
Registrato dal vivo il 21 Dicembre 1973 all’Academy of Music, New York City. Un ennesimo, magnifico cambio di registro. Svettano sulla band dardeggiante i gustosi duelli chitarristici di Steve Hunter e Dick Wagner. Quanto a Lou, ci spettina con potenza e fulgore, complice un’inedita fisicità resa più efficace dal look: capelli ossigenati e collare da cane al collo. Intrigante e pure sexually arousing. Un tuffo adrenalinico nel rock puro, cinque superlativi brani (Sweet Jane, Heroin, White Light / White Heat, Lady Day, Rock ‘N’ Roll). Un live imperdibile.
Sally Can’t Dance – agosto 1974
Appesantito dalle molteplici sostanze assunte dal musicista tra le poche sessions, Sally Can’t Dance si sposta musicalmente verso territori blues quasi grassi. E’ un disco di passaggio che comunque vende parecchio, sorretto dalla linea rossa delle liriche, qui ciniche e sprezzanti che raccontano con distacco l’umanità della New York inconsapevole e violenta dei bar di pomeriggio, che tutto si gioca per un po’ di amore raccattato al bancone. Intanto la bellezza sfiorisce e non resta che un bel visino a garantirti il pasto sino a domani.
I momenti più significativi sono la title track, tra cinismo, stupri e polvere bianca , la delicata Billy, la languida Baby Face. Una spanna al di sopra la potentissima e straordinaria Kill Your Sons, dove un muro sonoro con piatti assordanti e organo accompagna il racconto delle sedute di elettroshock cui venivano sottoposti i figli definiti “ingestibili” da genitori impotenti (esperienza personalmente vissuta da Reed durante l’adolescenza). Una narrazione vivida, un ceffone in pieno volto che lascia potente il segno.
Metal Machine Music – luglio 1975
Provocazione assoluta, ma cosa aspettarsi da un intellettuale raffinato come Reed? I discografici vogliono soldi e successo commerciale e lui li spiazza con questo. Doppio album di puro fruscio di feedback, distorsioni e chitarre al rallentatore che perdono ogni riconoscibile suono, sfociando in un paesaggio sonoro assordante e lasciato intenzionalmente senza contenimento. Inquietante ma seminale per alcuni gruppi a venire.
Coney Island Baby – dicembre 1975
Copertina indimenticabile. Lo sparato candido, il lucore abbacinante della pelle, il viso parzialmente coperto da una bombetta, sono tutti indizi di una morbidezza e di un candore che Reed lascia forse per la prima volta trasparire più chiaramente (il nostro sotto sotto possiede un rock and roll heart, non dimentichiamolo!)
Laddove Berlin era appena venato dalla sensualità in disfacimento della coppia, qui il calore e l’intimità del songwriting, la maggiore leggerezza e l’ironia affettuosa tratteggiata sui personaggi pare configurarsi come la restituzione attesa e celebrata dell’amore vero, quello che Reed conosce personalmente e quello più potente e transpersonale che trasforma il vissuto in poesia. Il disco è tutto godibile e, dovendo segnalare i punti più alti, citeremo la title track con la commovente dedica parlata in coda, la morbosa Kicks ed il suo incedere a spirale, incentrata su arditi interrogativi di sesso e morte, le fresche Crazy Feeling e Ooooooh Baby.
Rock And Roll Heart – novembre 1976
Ingiustamente dismesso come mediocre, è invece un disco di pregio, denso di melodie accattivanti che un impareggiabile talento compositivo riesce a rendere mai banali. Il senso del discorso è che “deep down inside I got a rock and roll heart” e le canzoni ne sono benevola testimonianza.
E’ una gioia ascoltare I Believe In Love, leggera come una piuma, un godimento il rock and roll di Banging On My Drum e Senslessly Cruel e l’ironia di Rock And Roll Heart. Non mancano canzoni più intense come You Wear It So Well, con i cori di Garland Jeffreys, e la conlusivo Temporary Thing, in puro stile raw Reed. Riascoltato oggi è ancora una sorpresa.
Street Hassle – febbraio 1978
Con la bellezza non si discute. Street Hassle è una vera perla, sporco, abbacinato, magistrale, registrato quasi tutto dal vivo, con il livore e l’urgenza corrosiva di liriche davvero notevoli. Il ghigno e l’espulsività sprezzante di Reed suonano come il calcio in faccia stile punk. Il suono è perennemente distorto, puro nichilismo e alterazione chimica, la voce impastata è di uno che non fa finta. E’ difficile trovare fessure qui, non c’è un brano fuori posto. La suite Street Hassle è un capolavoro che tutti già conoscono – quindi nulla da aggiungere (è suddivisa in tre parti con l’ultima sezione recitata da un giovane che secondo Reed “si farà“ (Bruce Springsteen); l’ostinato degli archi è un’intuizione geniale.
Come dicevamo tutti i brani sono superlativi, se dobbiamo – dobbiamo? – fare una scelta, diciamo a caso: Leave Me Alone, Dirt, Real Good Time Together, Gimmie Some Good Times (citazione-riscrittura di Sweet Jane).
Take No Prisoners – novembre 1978
Live at The Bottom Line Club, New York. Un live doppio troppo lungo e francamente brutto, con il Fender dilagante così come i monologhi-invettive del cantante che costringe la band ad interrompersi continuamente per lasciare spazio -sic- al flusso poco coscienziale del nostro che se la prende con tutti, manda a cagare il pubblico, sputtana Patti Smith, le madri e i padri, insomma un Lou Reed strafottente e sinceramente insopportabile.
Non ci sono canzoni complete, solo schegge accennate e poi affondate nel delirio delle parole, troppe. Comunque un manifesto del suo percorso artistico a scatti. Pensiamo che Street Hassle è stato dato alle stampe nello stesso anno, e qui siano da qualche altra parte del mondo.
The Bells – aprile 1979
Per fortuna arriva The Bells a restituirci un Reed più intero. Ad eccezione della provocatoria Disco Mystic, il disco ha uno spessore più consono alla vera cifra del personaggio. Dispiace solo che da un po’ la sua band sia composta da musicisti non troppo empatici (Ellard “Moose” Boles, Marty Fogel, Michael Fanfara). Per fortuna abbiamo la collaborazione eccellente di Don Cherry e la sua magnifica tromba.
I Wanna Boogie With You, All Through The Night, Families e l’epica The Bells rappresentano al meglio un disco che mantiene alte emozione e sperimentazione.
Growing Up In Public – aprile 1980
Sinceramente il disco più brutto del decennio. Imbolsito sfatto e dedito alla bottiglia, qui c’è poco Lou da salvare. Fa i suoi danni anche il recente matrimonio con l’arpia Sylvia Morales, che farà di tutto per guastare ancora una volta i rapporti di Reed e John Cale prima durante e dopo la discutibile reunion dei VU. L’album è un inquacchio melenso e sdolcinato. Si salvano giusto Standing On Ceremony e la spiritosa The Power Of Positive Drinking.
The Blue Mask – febbraio 1982
Ed ecco arrivare il punto di svolta, il felice equilibrio emotivo e musicale che Reed aveva perduto per strada. Il suono finalmente si spoglia di ridondanti pesantezze a favore di un sound tagliente e nudo seppur composto, rivitalizzato dalla tipica line-up chitarra- basso- batteria e priva di inutili fronzoli. I testi intimisti ed esposti come fosse avvenuta una qualche riconciliazione interiore.
Fluttuano ballads quali My House, commovente omaggio all’amato mentore Delmore Schwartz, ornate da arpeggi lievi ed incisivi in un canovaccio finalmente sgombro dai precedenti gonfiori. Scorre ipnotica The Gun. Si incendiano con il furore che ricorda certo noise Velvet la bellissima Blue Mask e la possente Waves Of Fear. Dicevamo di un ritrovato equilibrio, in gran parte merito della collaborazione con l’ex Voidoid Robert Quine che lega il lavoro con precisione e coerenza stilistica.
Legendary Hearts– marzo 1983
New Sensations – aprile 1984
Mistrial – aprile 1986
Tre dischi scialbi di cui non viene voglia di parlare dopo tanta truce bellezza.
Nota: Il cofanetto vede l’assenza di Lou Reed Live (marzo 1975) e Live In Italy (gennaio – 1984). Il primo è il completamento di Rock N Roll Animal; proviene dallo stesso concerto e ha lo stesso vigore. Magnifiche sono Waiting For The Man e Vicious, pazzesca Walk On The Wild Side. Insomma è l’Imperdibile Live Numero 2. Il disco ‘italiano’ è una cosetta abbastanza superflua. Non ci sono spiegazioni ufficiali per la mancanza di questi due titoli. Probabilmente Lou Reed non ebbe tempo di lavorarci sopra e questo mette un po’ di tristezza.