complice musica 1

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Molto più di un omaggio a ‘Nanda’

Locazioni: la sede del Club Tenco, una caratteristica piazza nel quartiere La Pigna, il Teatro del Casinò Municipale. Omaggiando La Nanda e non solo. Gli epitaffi, le poesie, gli esseri umani contenuti nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Un menestrello che attaccò la spina e provocò la scossa. La toponomastica della Beat Generation. Un certo tipo di letteratura che non ha mai smesso di donare appendici e bonus-tracks. Un’altra arca di Noè, per anni nei fondali marini e che ora può di nuovo navigare. Un album-manifesto. Tutto tenuto insieme dalla magnetica personalità di Fernanda Pivano. Diplomata in pianoforte, scrittrice, traduttrice e soprattutto instancabile esploratrice. Se aggiungiamo pure un cielo ora esultante, i girotondi intorno al mondo, aforismi che spiegano più della matematica, le canzoni che camaleontiche sanno di dolori, gioie e rivoluzioni, qui ci sono tutti gli aromi olfattivi possibili.
Tito Schipa, primo ospite della rassegna, il mito di un Orfeo numerato che fu la prima rock-opera italiana. Datata 1969 e nel mese di gennaio dell’anno seguente, il debutto live al Teatro Sistina di Roma. La vuole la Rai che poi gli mette il bavaglio. Censura, ma intanto il disco vanta dodici edizioni diverse. Ed ora c’è pure un triplo dvd ricco di materiale inedito. Tito Schipa ci dice anche di Dylan. Racconta, canta, recita prose estratte dalle copertine dei dischi di quel musicista che da anni riscalda i cuori folky. Angelina, stammi bene. Una certa Giovanna: Joan Baez. A Ramona perché in difficoltà. Strade desolate, semine passate, il momento del raccolto. Anche perché Dylaniato Vol.2 è un work in progress. Con il ricordo del fango in una Firenze alluvionata.
Piazza, bella piazza, ci passarono le arti e i mestieri … 244+1, non sono uno scherzo bensì numeri ideali per una lettura collettiva di Spoon River. Carta, cento anni fa. Il tempo è incerto. Quel Midwest è sempre più tra noi. Giacimenti di pietre come segreti della terra e gravitazioni come segreti delle stelle. Anime: sono lì vicine a te e tutto appare meno difficoltoso. Sarà un fattore emotivo, ma alcune ragazze arabe che partecipano alla lettura pubblica di quelle pagine sono dinamismi che possono espandere spazi interiori.
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C’è il teatro esaurito. Mirco Menna sfoggia una suite con le lacrime al sole (e i lacrimogeni nel capoluogo ligure, 2001). C’è la voce della Pivano che fa da intro a “Genova”, la prima canzone.
Quindi, il via al carezzevole omaggio ad un Sergio Endrigo poco noto. Quello che oltre ad essere amante della canzone brasiliana, francese e cubana, musicò anni fa testi di scrittori e poeti cari alla Pivano. Scrigni nascosti, causa miopie discografiche. Sul palco c’è la house-band di Mauro Ottolini. Talenti del suono improvvisato quanto swingante. Jazz’n’Street: le spezie di New Orleans e quelle di un ipotetico musical in una banlieu. Quattro cantanti in sequenza. Diodato e la sua timbrica vocale che entra facilmente in circuito. Vanessa Tagliabue Yorke amazzone quanto fata turchina e che fa della sua voce un megafono che invita ad affollare e non a sfollare. Alberto Fortis pare abbia voglia di imparentarsi con certi songbook blues pur non disdegnando flessibilità pop ed è raggiante e composto in egual misura. Rossana Casale senza tentennamenti attraversa varie stagioni in jazz ed è sicuramente la più metropoli/centrica di tutti.
Su desiderio della stessa Pivano, c’è da cantare e mettere in musica The Bomb, la celebre poesia di Gregory Corso. Ci pensa un ineccepibile John De Leo. Agit-prop, forse in combutta con quel Burroughs che volle raffigurata quella bomba come un fungo atomico. Con John, un pianoforte col tocco femminile e stilettate elettroniche al maschile. Le sue corde vocali come deflagrazioni, tutta la drammaticità del guerriero, i multipli impasti della poesia sonora, le schegge dell’industrial-music, la poetry-slam in chiave electro, gli immaginari da Apocalypse Now, le incognite futuriste, l’ardore stilistico e quel suo cantato-recitato-urlato-sussurrato (tanto bene) che sbalordirebbe sia Vittorio Gassman che Demetrio Stratos.
1971: c’è Spoon River a braccetto con l’album Non Al Denaro, Non All’Amore, Né Al Cielo di Fabrizio De André. Un disco dalla fascinazione illimitata. Per riproporlo, occorre prima prendersi tra le mani la testa. C’è Morgan, tutto in ghingheri, sigaretta tra le labbra, che da buon istrione cerca il restauro perché sa benissimo di avere a che fare con una preziosa opera d’arte. Ci dà dentro come un matto. A supportarlo ci sono la chitarra e gli effetti speciali di Megahertz. Canta in inglese e in italiano, duella con il pianoforte e vince. A concludere Cristiano De André, amorevolmente fluido ma anche più convenzionale. Alla fine, per tutti, c’è una standing ovation che si dilunga e senz’altro da ricordare.
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Ha collaborato con diverse testate giornalistiche e da anni si occupa di controculture in diversi ambiti ed è organizzatore di eventi interdisciplinari. Nel 1994 è stato produttore artistico del disco "I Disertori. Omaggio a Ivano Fossati". Fa parte delle giurie nazionali di alcuni festival e rassegne musicali italiane. Ha pubblicato i libri "Bloom Sviluppi Incontrollati" (Vololibero, 2012) e "Le radici del glicine. Storia di una casa occupata" (Agenzia X, 2017).

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