fausto suicidio

fausto suicidio

La leggenda Faust’o

Un telefono squilla, un uomo alza la cornetta e risponde. Dall’altro lato si sentono i vagiti di un bambino. L’uomo, per nulla commosso o intenerito, esplode in una lunga risata diabolica che va a sfumare in un ipnotico turbinio di tastiere. Non si tratta di un incubo e nemmeno della scena di apertura di un film di Dario Argento. È semplicemente l’inizio di una leggenda, di nome Faust’o.

Come tutte le leggende, anche questa ha degli aspetti oscuri e dibattuti, che ne rendono difficile, se non impossibile, un’analisi oggettiva. Non si capisce, ad esempio, perché un artista così significativo sia rimasto sconosciuto o, peggio ancora, dimenticato da una buona fetta di pubblico, ma adorato da altri. Se avete degli amici esperti di pop-rock italiano, provate a chiedere loro se conoscono Faust’o. Sono certo che otterrete le reazioni più disparate: chi vi dirà “ma chi cavolo è?”, guardandovi come se aveste appena menzionato il cugino sfigato dell’ultimo cantante di strada; chi invece, quasi offeso dalla domanda, vi risponderà: “ma certo, come si fa a non conoscere un musicista di quel calibro?”.

fausto il caso

Faust’o / Fausto Rossi – discografia

Forse a gettare un po’ di luce sull’argomento ci penserà il libro di Joyello Triolo “Dentro questi specchi – Faust’o / Fausto Rossi – discografia”, pubblicato pochi mesi fa. Dico “forse” perché, lo confesso, non ho ancora avuto occasione di leggerlo e probabilmente non la avrò mai, visto che ho sempre una marea di cose da fare, compreso scrivere articoli musicali senza sapere nulla di musica, o quasi. Magari, se vi capita e se ne avete voglia, potreste dargli voi un’occhiata e poi mi sapete dire qualcosa, d’accordo?

Io però, testardo e presuntuoso come sono, un’idea sulla faccenda me la sono già fatta. Che poi è un’idea che non riguarda soltanto la storia di Faust’o, ma vale un po’ per tutte le cose della vita. Il guaio è che alla maggior parte delle persone piace soltanto ciò che è facilmente etichettabile, ciò che può essere incasellato senza sforzo in una categoria ben definita, ciò che non tradisce mai perché, pur nella sua originalità, ci riserba sempre quello che ci aspettiamo di trovare. Insomma, tutti quanti hanno bisogno di certezze, compresi gli animi più ribelli ed anticonformisti.

Suicidio

Ma come si possono trovare delle certezze in un artista che si è continuamente rinnovato per tre decenni consecutivi, senza mai voltarsi indietro, se non per rinnegare il proprio passato? Provate ad immaginare il piccolo Fausto Rossi, nato da una famiglia benestante della provincia di Pordenone, che inizia a suonare il piano a soli cinque anni per la gioia dei genitori e dei loro ospiti da salotto borghese. Pensate, poi, al ragazzo che alla fine degli anni settanta debutta sulle scene come Faust’o e pubblica un album con un titolo provocatorio (Suicidio, 1978), dal sapore new wave e con testi estremamente dissacranti, espliciti, intrisi di un nichilismo che non ha nulla da invidiare al punk duro e puro. Pur cantando in italiano, Faust’o si ispira quasi esclusivamente alla musica inglese e americana (primi fra tutti Hendrix, Talking Heads e Velvet Underground), mostrando un’aria di sufficienza e disprezzo nei confronti degli artisti italiani dell’epoca, che definisce spietatamente “ancora bloccati all’800 da un punto di vista armonico”.

Out Now

Un altro paio di album su questo stile, eccetto una parentesi marcatamente sperimentale, ispirata alla musica concreta (Out Now, 1982), e la carriera di Faust’o sembra spianata. Ecco, però, la prima grande sorpresa, che lo stesso cantautore, in un’intervista di parecchi anni dopo, racconterà così: “Alla Ricordi erano convinti che con il disco successivo saremmo entrati in classifica. Ma io non avevo voglia di proseguire su quella strada e ho cominciato a lavorare su un album triplo, assolutamente fuori da ogni schema commerciale”. Si riferisce a Love Story (1985), che a differenza dei primi quattro lavori è interamente cantato in lingua inglese e che spiazza tutti con i suoi arrangiamenti estremamente scarni e con tracce ripetitive, molto simili tra loro, quasi a formare un unico, angosciante delirio.

Seguono sette anni di silenzio, dove l’artista si ritira per concentrarsi su nuovi studi e sperimentazioni, in particolare su computer-music ed etnomusicologia. Negli anni Novanta torna sulle scene col suo vero nome, riprendendo a scrivere testi in lingua italiana e lavorando ad un totale di quattro album, in cui si cimenta in generi completamente diversi tra loro. In particolare Cambiano Le Cose (1992) è incentrato su sonorità computerizzate, mentre Exit (1997) è in stile blues. L’abbandono dello pseudonimo iniziale segna un distacco intenzionale rispetto alla prima fase artistica, dalla quale il cantautore ha preso più volte le distanze senza risparmiare dure critiche nei confronti della casa discografica.

faust-o

Exit

In seguito alla pubblicazione di Exit, album dal titolo profetico, inizia un nuovo periodo di ritiro che dura quasi un decennio. In questa fase Fausto Rossi continua a lavorare in privato, per poi ricomparire in pubblico nella seconda metà degli anni duemila e riprendere ad incidere dischi in lingua inglese, l’ultimo dei quali è Blank Times, del 2012.

Difficile stare dietro ad un tipino del genere, vero? L’unico fatto certo sembrerebbe quello che vede Faust’o come uno dei pionieri, se non addirittura il primo esponente in assoluto, della new wave italiana. Anche questa certezza, però, è destinata a crollare miseramente. A minarne le basi basta un’osservazione semplice quanto sconvolgente: la new wave, italiana o estera che sia, non è mai esistita come genere musicale vero e proprio. Si tratta piuttosto di un’etichetta di comodo o, per certi versi, di un non-genere. Qui ci viene in soccorso il libro (o forse a questo punto dovremmo dire non-libro?) dal titolo New Wave, di Simone Arcagni (Giunti, 2001), dove il critico afferma in maniera brillante che “la new wave non è mai stata un movimento di persone mosse da medesimi intenti o una cerchia di musicisti che ha dato vita a una ‘scuola’ espressiva ben definita. Si è trattato, piuttosto, di un manipolo di artisti o aspiranti tali che, sull’impulso del punk e della sua logica del ‘tutti possono farlo’, tra la seconda metà dei ’70 e i primi anni ’80 si sono dedicati a ricerche sonore le più disparate, in varie direzioni”.

L’essenza sfuggent di Fausto Rossi

Cosa ci resta, dunque? A quanto pare, cercare di carpire l’essenza di Fausto Rossi è un po’ come voler afferrare dell’acqua a mani nude: il liquido ci sfugge subito via tra le dita, cambiando forma continuamente. Non rimane che una sola cosa da fare, l’ultima cosa che normalmente si fa quando si parla di musica e, in particolare, quando si recensisce un disco: ascoltarlo. Anzi, già che siamo in vena di cose atipiche, facciamo qualcosa di veramente insolito, rivoluzionario, quasi un gesto da incendiari: anziché scaricare canzoni dalla rete o, peggio, cercare a casaccio pezzi su Youtube, compriamo un album. Uno solo, però lo ascoltiamo bene, più e più volte, dall’inizio alla fine, soffermandoci sui passaggi poco chiari.

Riascoltare il suicidio

Se avete letto il mio articolo sui Bronski Beat, sapete già che al sottoscritto piace iniziare le cose dall’inizio, quindi non vi stupirete più di tanto se vi dico che ho deciso di comprare proprio l’album di esordio, Suicidio. Realizzato in collaborazione con Alberto Radius dei Formula 3, è un piccolo capolavoro che riesce abilmente a stare in equilibrio tra innovazione e omaggio a generi ormai decisamente maturi. Degni di nota, in particolare, gli assoli di tastiere in stile prog (ma il Fausto Rossi del ventunesimo secolo rinnegherà anche queste, non sentendole del tutto sue: “Durante la registrazione di un disco non potevi allontanarti un attimo dalla regia. Il rischio era quello di ritrovarti assurdi arrangiamenti prog buttati lì, in mezzo a un sound dalla chiara impronta new wave”).

I ritmi sono sempre coinvolgenti, quasi da ballata, e tutti gli strumenti tipici del rock si fondono in una ricetta molto ben dosata e armonizzata. Ricorrono spesso delle gradevoli linee di pianoforte, lo strumento che ha segnato il primo approccio di Fausto Rossi alla musica. La voce non ha un timbro particolare, un marchio di fabbrica facilmente riconoscibile, ma riesce comunque a distinguersi grazie ad un’ottima variabilità e adattabilità alle situazioni: dal falsetto infantile dell’incipit di C’è Un Posto Caldo, ai toni cupi di Benvenuti Tra I Rifiuti, passando per lo stile allegro e canzonatorio di Eccolo Qua.

 

Cinismo, ribellione e spirito provocatorio sono gli ingredienti comuni a tutti i testi, che spesso ad un ascolto attento si rivelano più profondi e arguti di quanto possano sembrare al primo impatto. Il pezzo che dà il titolo all’album, ad esempio, non è affatto l’ultimo lamento di una persona che sta per togliersi la vita, ma la celebrazione di un’indifferenza spietata e misantropica nei confronti dell’umanità (“Lascia che la gente muoia, non mi importa più di loro, voglio solo riposare… Buttarmi sulla strada, mai!”). Il vero suicidio sarebbe dunque uscire di casa e calarsi in un mondo logoro, tedioso e pieno di cretini che non riescono a suscitare compassione nemmeno quando muoiono (“anche il terremoto adesso mi dà solo noia, noia, noia…”).

Le canzoni di Suicidio

Il brano Godi è un dissacrante inno alla perversione, vista come unica soluzione ad una vita mediocre e come un doveroso oltraggio al finto perbenismo degli ambienti bigotti. Espliciti inviti al libertinaggio e alla trasgressione ostentata (“godi sul muso dei vecchi, vestiti da specchi e ridigli addosso la tua libertà”) si alternano a ironiche raccomandazioni a fare tutto “di nascosto, nel cesso, nel bosco, nell’ultimo posto in cui Dio ti vedrà”. Sembra quasi di sentire una rivisitazione in chiave musicale di Charles Bukowski, lo scrittore e poeta americano che proprio in quegli anni scuoteva il mondo con frasi come: “venivo alla faccia della decenza, sperma caldo che colava sulle teste e sull’anima dei miei genitori morti”.

 

Nel brano Piccolo Lord, invece, troviamo forti elementi autobiografici. Harry, giovanissimo talento del pianoforte, è l’orgoglio della madre, la quale non perde occasione di esibirlo come un trofeo ogni volta che organizza uno dei suoi insopportabili ricevimenti a base di tè e biscottini. L’ipocrisia aleggia nell’aria: dietro ai complimenti di facciata da parte delle amiche, si nascondono gli occhi di cento avvoltoi che scrutano il bambino con invidia e malignità, sperando che commetta al più presto un errore, per poterlo cogliere in fallo. Ecco, però, che arriva il colpo di scena: l’alter ego ribelle di Faust’o inizia improvvisamente a fare il pazzo sopra il pianoforte, prendendo a calci tazze e biscottini e mandando tutto in frantumi. Splendida l’immagine della madre che, non volendo accettare l’imbarazzante situazione, continua imperterrita ad offrire alle amiche dei pezzi di tazzina rotta, mentre invita con voce stridula il suo piccolo lord a suonare ancora qualche brano di Chopin per loro.

Decisamente più scabrosa è la storia narrata in C’è Un Posto Caldo: un ragazzo scopre la propria omosessualità incontrando dopo tanti anni proprio quel compagno di scuola che da piccolo lo aveva traumatizzato mostrandosi in atteggiamenti intimi con un altro alunno. La rivelazione è vissuta dal protagonista con angoscia e con una sensazione di prigionia, specialmente quando il compagno, dopo essersi intrattenuto con lui, lo provoca con frasi come “non tornerai dal tuo dio, o forse anche lui è come noi”, o “non ti libererai, vedrai, ormai sei sporco come me”. Il posto caldo del titolo non è altro che la casa del precoce amico, dove il ragazzo viene invitato a stabilirsi in quanto unica zona franca dove potrà trovare un po’ di comprensione. È ovvio, però, che il titolo lascia volutamente spazio anche ad interpretazioni oscene.

Vi basta tutto questo? Spero proprio di no, anche perché l’album non si esaurisce qui. Ci sono altri brani altrettanto belli di cui non vi ho parlato, un po’ per non abusare della vostra pazienza e un po’ perché avevo già scelto il titolo dell’articolo prima ancora di iniziare a scriverlo, quindi oramai se voglio stare ai patti dovrò per forza essere breve. Ma credetemi, è sempre bene che ascoltiate le cose con le vostre orecchie, che ragioniate con la vostra testa, che maturiate delle opinioni personali. E, perché no, che vi sentiate anche liberi di dire “non mi piace” perfino davanti ai mostri più sacri ed intoccabili della musica. Non scendete mai a patti con questo mondo di idee preconfezionate e di frasi fatte: quello sì che sarebbe un vero suicidio.

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Ha sprecato gran parte della vita facendo cose inutili e cercando in tutti i modi di boicottare la propria felicità. Nei rari momenti di ispirazione, però, scrive per TomTomRock concentrandosi soprattutto sulle sonorità disco, new wave, synth-pop e elettroniche in genere del periodo ‘70-’80. Degli stessi anni apprezza anche la musica cantautoriale italiana, ma chi gli vuole davvero bene sa che non bisogna fargliela ascoltare, altrimenti diventa malinconico. Disprezza apertamente tutto ciò che è contemporaneo e alla moda, però in gran segreto segue le novità sperimentali e di nicchia del panorama underground genovese. Ha una scrivania in finto legno piuttosto economica e una libreria in noce massello, della quale va molto orgoglioso.

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