ariel pink pom pom

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di Antonio Vivaldi

Si parte con la marcetta psicotica di Plastic Raincoats In The Pig Parade per poi cambiare genere quasi a ogni pezzo viaggiando fra melodie da cartone animato anni ’40, pop barocco anni ’60, pomp-rock anni ’70, dark anni ’80 e, giusto per non farsi mancare nulla, un paio di minuti dub. Dopo i dischi con gli Haunted Graffiti, in Pom Pom Ariel Pink ritorna a incidere solo a proprio nome e, paradossalmente, mette in mostra più del solito la sua personalità e le sue voci multiple. Molta critica anglo-americana va in brodo di giuggiole per il musicista losangelino che indubbiamente ci sa fare con le melodie ed è anche intelligente e accurato come produttore. Qualcosa però non va e il difetto pare essere nel manico: l’idea di ridare lunatica dignità a generi spazzatura tipo l’AM Rock o a eccentrici personaggi del passato come il filibustiere (chiedere alle Runaways) Kim Fowley comincia a essere un po’ sfruttata e lo stesso vale per i momenti, diciamo così, John Waters Rock, ove si deformano o s’illuminano con luci sinistre situazioni che dovrebbero essere solari o rassicuranti.
In sintesi, Ariel Pink è un genietto, ma non è un genio; è un eclettico, ma non è un visionario (dimensione a cui a tratti accede un altro maniaco dello studio di registrazione quale Avi Buffalo); vuole essere uno e tre volte trino, ma gli manca la divina ispirazione (quella forse l’aveva solo Brian Wilson e in verità gli ha procurato parecchi guai). Infine, 17 pezzi sono troppi e, dopo una piacevole prima parte con alcune buone canzoni pensate come tali, passata la metà il disco va alla deriva in una dimensione un po’ compulsiva da audiogioco, peraltro in perfetta sintonia con la faccia da bambinone furbo dell’autore.

6,5/10

 

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Ariel Pink – Put Your Number In My Phone 

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