damien rice cover

damien rice cover 

di Antonio Vivaldi e Fausto Meirana

La teoria è parecchio azzardata, se non insostenibile. Però, nel primo minuto e mezzo di My Favourite Faded Fantasy Damien Rice canta in falsetto come se si fosse trasformato nell’ex compagna di musica e sentimenti Lisa Hannigan oppure in un morphing di tutte le donne che lo hanno fatto (e lo faranno) soffrire. Freud avrebbe molto da dire al riguardo, ma forse ora è meglio di provare a parlare di questo disco in modo serio…
Entrato in scena nel 2003 con il successo planetario di O, Rice si era fatto desiderare per ben tre anni, prima di ripresentarsi col più che dignitoso 9; poi il silenzio, complici delusioni amorose (ma va…) e incertezze artistiche o motivazionali, e ancora altri otto anni d’attesa per avere il terzo album. Nel bene e nel male My Favourite Faded Fantasy dimostra che il musicista irlandese è sempre lui, per quanto stavolta abbia optato per scelte soniche inedite, andando a Los Angeles per farsi produrre da Rick Rubin e in Islanda per farsi ispirare dalla natura selvaggia dei luoghi. Già la copertina, minimale e beige come le altre, odora di casa, confessioni, attese, errori e tutto ciò che è amore e/o disastro, anticipando con millimetrica precisione quel che racconterà la musica (o anche il videoclip di I Don’t Want To Change You). Ora, si potrebbe dire che questo incaponirisi sul rapporto a due onnicomprensivo e autoflagellante  comincia a essere monotono, eppure… eppure il nostro Damien ancora una volta si salva, e si salva alla grande, perché è epico e tormentato come i Radiohead, ma lo è sotto forma di melodie ricche di aperture, sussulti e sospensioni (It Takes A Lot To Know A Man è una piccola suite), mentre da un po’ di tempo Thom Yorke e compagni hanno disimparato a scrivere canzoni che siano tali. Fanno bene il loro lavoro gli arrangiamenti a base di archi che hanno caratterizzato i brani più conosciuti del passato, anche se le manopole di Rubin aumentano un po’ il pathos qui e là, con veementi pieni orchestrali in contrasto con i delicati arpeggi delle chitarre o il sussurrato del canto. Chiaro che la varietà non è il tratto caratterizzante del lavoro e forse si sarebbe dovuto dare più spazio a certi micro-interventi elettronici di semplice e nitida efficacia, anche perché quasi tutte le composizioni starebbero in piedi con poco o nulla. In ogni caso, come si era scritto per Scott Walker, anche in questo caso si tratta di prendere o lasciare, di un artista che senza tormento forse non esisterebbe.
Ora, ritornando all’osservazione iniziale, fa capolino un pensiero davvero perverso: un disco a quattro mani di Damien Rice insieme a Sharon Van Etten (altra complicatona con cui anche andare a cena si trasforma in impresa psicoanaliticamente epocale) sarebbe il punto di non ritorno di tutta la canzone d’amore pugnalato. Sempre ammesso che i due non si pugnalino a vicenda a metà sessions.

7,5/10

 

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Damien Rice – I Don’t Want To Change You

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