di Antonio Vivaldi
Il bar di Milano, con arredi in stile vintage triste e bandiera di Forza Italia dietro il bancone, era proprio brutto; il giovane attorniato dai microfoni degli intervistatori era proprio bello. Teneva gli occhi bassi e rispondeva alle domande cambiando le corde della chitarra elettrica. Tre ragazzine lo osservavano interessate attraverso la vetrina del locale; tre imprenditori cinesi verificavano la qualità di nuovi modelli di scarpe picchiandole sul tavolino. Eppure, in quella situazione da teatro dell’assurdo, enfatizzata dalle intromissioni di un tour manager nevrastenico, il giovane con la chitarra comunicava disponibilità e una sapiente miscela di charme e modestia. Era il 1994 e lui era Jeff Buckley, in tournée per presentare Grace. Ecco, grazia è la parola giusta per descriverlo.
Ventidue anni dopo è utile ricordare quella grazia per non dire male a priori di You And I, perché la si ritrova anche in questi demo di studio risalenti al febbraio 1993 che, va detto subito, Jeff Buckley non avrebbe certamente voluto pubblicare. Questo è il punto: stiamo parlando di un artista che in vita ha inciso un album (Grace appunto) e un ep dal vivo (Live At Sin-è), ma che ha avuto una carriera postuma da far impallidire quella di Jimi Hendrix (lui almeno quattro album li aveva visti uscire) e che in diversi momenti è parsa pretestuosa. Oggi questa carriera si allunga ulteriormente con You And I, ovvero “una raccolta dei primi esperimenti in studio del cantautore statunitense riscoperti dopo vent’anni [il grassetto perplesso è del recensore] negli archivi della Sony Music”. Jeff Buckley è da solo con la chitarra elettrica o acustica e sembra impegnato a prendere confidenza con la dimensione da solista e lo studio di registrazione, così come stava in contemporanea affinando la sua performance dal vivo al Sin-è. Canta con grande rispetto pezzi di autori che considera maestri o spiriti affini, da Bob Dylan a Bukka White (clonato più che interpretato), dai Led Zeppelin agli Smiths. Nella voce, già personale e pirotecnica, si sentono echi di Van Morrison, Robert Plant e del perenne convitato di pietra nella vita e nella carriera di Jeff, il padre di Tim.
“E non potete fare domande su suo padre, capito?” berciò il tour manager. Poche ore dopo la sala del concerto era piena di gente venuta da mezza Italia quasi tutta lì per ascoltare “il figlio di Tim Buckley”. I fan (e le fan) di Jeff e solo di Jeff sarebbero arrivati pochi mesi dopo.
La piacevolezza dell’ascolto è indiscutibile, anche perché Jeff con la chitarra ci sapeva fare (interessante ascoltarlo alla slide in Poor Boy a Log Way From Home) e il fraseggio vocale era già ineccepibile. A volte è più convincente ( i “no no no no” che aprono Just Like A Woman), a volte meno (i pezzi degli Smiths, un po’ sfilacciati), a volte sforza troppo il canto, a volte si abbandona alla storia che racconta proponendo una suggestiva dimensione quasi asessuata (è il caso di un brano dall’identità molto femminile come Calling You). Poi ci sono i due “brani inediti”, entrambi firmati da Jeff, e qui un certo sturbo ritorna; Grace è solo una versione di un pezzo già noto, mentre Dream Of You And I è nulla più di una graziosa melodia appena accennata su cui viene raccontato un sogno (“Meh, vabbé” dicono a Bari).
Sul palco in quella sera del 1994 Jeff Buckley allontanò il fantasma del padre (e persino quello delle recenti elezioni politiche). Come durante l’intervista, tenne quasi sempre gli occhi sulla chitarra. Fu un concerto potente, ma con grazia.
6,5/10
httpv://www.youtube.com/watch?v=_5a708EqfuE
I Know It’s Over