pearl jam lighting bolt

pearl jam lighting bolt

di Elena Colombo

A quattro anni da Backspacer i Pearl Jam tornano con un album spiazzante. Quattro anni sono un lungo intervallo di riflessione. «Cosa cavolo è successo?» chiede Steve Gleason all’inizio del bellissimo documentario firmato da Danny Clinch che trovate a fine recensione. Di cose ne sono successe, i cinque membri della band hanno consolidato il proprio suono ed esplorato nuove soluzioni compositive: per questo Lighting Bolt è così vario.  In Pendulum Gossard si cimenta ai bonghi mentre Ament prova la bowed guitar con un risultato affascinante e ipnotico; quindi il produttore Brendan O’Brien costruisce una nuova veste per Sleeping by Myself, già apparsa in Ukulele Songs (2011). Strumenti insoliti sviluppano le melodie (in Future Days la tastiera diventa dolce come un piano), ma i vecchi schemi resistono, rinnovandosi: Mike McCready riesce ancora a fare un assolo di chitarra senza risultare anacronistico e, se non si tocca più le vette fulminanti di Do The Evolution, si ritaglia momenti autonomi di vera bravura. I due singoli che hanno preceduto la pubblicazione dimostrano la flessibilità di Vedder e compagni: Sirens è una ballata perfetta, con un testo intimo e profondo. Al contrario, i detrattori diranno che Mind Your Manner è un brano punk semplice, ma è questo ritorno alle origini che la rende accattivante e la colloca dalle parti di Spin The Black Circle. Anche se spesso i confronti sono controproducenti – specie se si parla di un gruppo che, in più di vent’anni di carriera, ha scritto pezzi indimenticabili – è impossibile non vedere delle similitudini che si ripetono anche più avanti nella scaletta. Let The Records Play è una citazione quasi esplicita, costruita su un garage classico, sporco e trascinante. D’altra parte, Eddie non è nuovo alle incursioni nel blues e se qua e là si sentono riverberi doorsiani, viene spontaneo ricordare la straordinaria jam del 1993 in cui il cantante aveva ‘interpretato’ Jim Morrison (c’è qualcosa di Not To Touch The Earth nei primi versi e nelle anafore di Swallowed Whole?) Ritornando al passato, potremmo tracciare una linea che va da Alive a My Father’s Son, ma in questo caso il paragone sarebbe troppo impari. I testi sono forse meno tormentati, più maturi, ma trasmettono ancora l’energia dell’emergenza comunicativa che viene rinforzata dai disegni del libretto. Don Pendleton ha adottato uno stile diretto, forse a volte dissacrante e un po’ kitsch, per illustrare il pensiero dei suoi vecchi amici e l’insieme è senz’altro efficace quanto il bianco/rosso/nero che identificava i White Stripes. 

7,5/10

 

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Lightning Bolt – A short film by Danny Clinch

 

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